Hay, Hay, it's Donna Hay's time! è il ritornello con cui le centinaia di migliaia di fans della food editor più amata nel mondo accolgono ogni sua nuova uscita in libreria e perdonateci, quindi, se ci siamo cascate anche noi: o meglio, perdonateci, se il tempo, per Donna Hay, è arrivato così in ritardo, rispetto all'importanza del personaggio e ai molti prodotti da lei sfornati, da che esiste lo Starbook.
Nessuna distrazione, nessuno snobismo, nessuna antipatia, anzi: che ci piaccia o meno, Donna Hay sta alla comunicazione del cibo come Copernico al sistema solare e se prendete in mano una qualsiasi rivista edita prima della metà degli anni Novanta potrete rendervi conto con i vostri occhi di quanto l'esagerazione del paragone sia solo fino a un certo punto provocatoria
Perchè, che ci piaccia o meno, senza questa food writer e food stylist australiana, probabilmente staremmo ancora a fotografie ricette impiattate nel servizio buono, uccise da luci sparate in fronte e mortificate da trucchi volgari e abbruttenti e del tutto slegate fra loro, esattamente come era di prassi vent'anni fa, prima che questa allora diciannovenne decidesse di lavorare nell'editoria del cibo, stravolgendola da cima a fondo.
Il terreno, per altro, era fertilissimo: gli Australiani, a dispetto della loro giovane età, avevano saputo strutturare la più variegata delle tradizioni culinarie in due grandi pilastri della cucina casalinga, a firma di Margaret Fulton (The Margaret Fulton Cookbook, I edizione 1968) e di Stephanie Alexander (The Cook's Companion, I edizione, 1996): in più, nei trent'anni intercorsi fra queste due pubblicazioni, non erano certo stati con le mani in mano: chi di noi non ha mai sfogliato avidamente le monografie dell'Australian Women's Weekly, per esempio? Una collana, questa, che di nuovo si metteva a servizio di chi doveva preparare i pasti per la famiglia (non a caso, nasceva ed è tuttora legata all'omonima rivista) e che, nel tempo,aveva iniziato anche a proporre immagini sempre più accattivanti, anche se del tutto avulse da contesti di vita vissuta: chi è intorno ai miei anni ricorderà degli imbarazzanti sfondi color pastello (rosa e verde acqua, su tutti, ma anche gialli e azzurri pallidissimi) su cui si stagliavano torte a strati, grondanti di strane creme e basate su strani ingredienti che proprio con la forza dell'immagine ci facevano desiderare di assaggiarle, a dispetto della ripugnanza di certi frosting al formaggio o del suono esotico di ingredienti allora sconosciuti, come lime, noci pecan e zenzero fresco.
E' questo il retroterra di Donna Hay, quello che le permette di mettere in atto la sua rivoluzione,dalle colonne di Marie Claire: di qui, un'editoria che fondava una tradizione, coltivandosi generazioni di casalinghe che imparavano a cucinare dai libri e dalle riviste; di lì, una levità nell'approccio al cibo che induceva a schiacciare il piede sull'acceleratore della creatività, senza per questo rischiare accuse di lesa maestà dai lettori per aver osato rivestire i lamington di cioccolato bianco o di aver presentato pavlove abbronzate di cacao e caffé.
Tutto intorno, c'è l'ennesimo mondo che cambia, quegli anni Novanta che ormai ci sembrano preistoria e che sono quelli in cui si pongono le basi per quella rivoluzione digitale che renderà possibile ciò che prima era inimmaginabile e che, nel caso di Donna Hay, si traduce in un intelligente e pionieristico asservimento delle nuove tecnologie alla sua altrettanto nuova idea di comunicazione del cibo.
Chiariamo subito un punto: la Hay non è né colei che inventa la figura del food stylist né colei che teorizza per la prima volta che il cibo debba essere bello, anzi: è semmai colei che ti schiaffa in faccia pile e pile di stoviglie sporche, di cucchiaini leccati, di strofinacci stropicciati e tutte quelle robe che, in teoria, dovrebbero far inorridire qualsiasi appassionato di cibo, convinto assertore che l'igiene e la pulizia dovrebbero essere preliminari assimilati e condivisi, da questa e da quell'altra parte del mondo.
Che il cibo si mangi anche con gli occhi, questa è cosa che sapevano già i Romani e che si protrasse ininterrotta nel corso dei secoli, con un nettissimo sbilanciamento in favore del valore scenico e simbolico, rispetto a quello del gusto e del nutrimento.Ci vollero quel gran genio di Careme, prima, e Brillat Savarin dopo a riportare l'equilibrio fra i due fattori e non si trattò di impresa facile: perchè, non dimentichiamocelo, preparare piatti belli è infinitamente più semplice che preparare piatti buoni, come ben sanno i foodblogger che, da sempre, privilegiano ricette fotogeniche rispetto ad altre meno duttili di fronte all'obiettivo: fino a qualche anno fa, non si trovava un arrosto neanche a morire, nella blogsfera italiana. Se li vedete oggi,è perchè il food styling ha trovato un modo appetibile per presentarli (di solito, in mezzo allo sporco, al grasso e all'unto, ma vabbè, la moda è questa e ci si adegua).
L'innovazione della Hay è stata quella di aver reso la ricetta protagonista di una storia, con un prima, un durante, un poi, un'ambientazione e dei co-protagonisti, c quei "propper" che sono diventati sempre più essenziali all'immagine, cosi come i materiali dello sfondo, degli strofinacci, degli utensili e via dicendo. Il risultato è stato una magia che ha obnubilato il senso critico di molti, facendo passare in secondo piano le 50 sfumature di azzurro che dallo sfondo finivano nel piatto o ammiccamenti un po' borderline, fatti di bianchi accecanti e di sfocature oltremodo sospette.
Resta comunque il fatto che,alla fine, quello che decide la valutazione di un piatto è il giudizio del nostro palato e, prima ancora, la attendibilità del procedimento: se l'impasto non lievita o si affloscia nel forno, una bella foto della resa finale ha un che di irridente e borioso che rende ancora più amara la frustrazione per il fallimento.
Questo, e solo questo, è il motivo per cui le Starbookers hanno sempre girato intorno a Donna Hay:perchè fino a qualche tempo fa, i giudizi sui suoi libri erano contrastanti. Bellissimi tutti,senza nessun dubbio. Ma le ricette, erano tutta un'altra faccenda.
Se ci siamo decise,alla fine, è stato solo per l'inarrestabile percorso di questa signora, che non sa cosa significhi riposare sugli allori e meno che mai di ritenere concluso il suo cammino: ogni rivista, ogni libro, ogni raccolta è concepita sempre come una tappa e non un punto di arrivo, un passo in avanti lungo una strada che si rivela sempre ricca di spunti originali, di novità, di sorprese.
Il libro che abbiamo scelto appartiene proprio a quest'ultima fase, visto che è uscito lo scorso anno, con un titolo e un argomento perfetto per la stagione che stiamo per affrontare. Lo stile è quello di cui si è appena detto, volto a catturare il lettore al primo sguardo, ma allo Starbook, si sa, parlano solo le ricette: quale linguaggio, lo vedremo tutti assieme, squadra e Redoners, a partire da domani.
E voi, come sempre, seguiteci!