Questa volta per
recensire la ricetta parto da lontano. Più precisamente, parto dall’introduzione
del libro stesso, dove Cracco dichiara qual’era il suo intento nel mandare alle stampe codesto capolavoro. Non ve la copio tutta naturalmente, solo alcuni passaggi.
Il cibo non è solo ciò che ci permette di
accumulare l’energia necessaria a vivere, è molto di più. A esso si lega una
storia di luoghi, di tradizioni e di persone che lo rendono davvero unico.
Cucinare un piatto è solo l’ultima tappa di un percorso prezioso grazie al
quale gli ingredienti acquistano ricchezza e bontà. Per questo in cucina è
fondamentale chiedersi sempre: da dove vengono i cibi che usiamo? Chi li ha
prodotti? Qual è la storia del territorio in cui sono nati? Più lineare, chiaro
e sano è questo percorso, tanto più forte sarà il messaggio che il piatto potrà
portare con se’ e quindi le emozioni che suggerirà a chi lo assaggia.
Anche per questo motivo non ho voluto fare solo un
libro che raccogliesse le ricette con dosi e procedimenti ma mi è piaciuto dare
un contesto e un racconto unico per ognuna e approfondirne gli aspetti che a me
stanno più a cuore, con anche delle vere e proprie lezioni di cucina che vi
insegnano sia le basi sia le preparazioni difficili. E’ un libro anche molto
pratico, ovviamente, in cui le ricette sono spiegate nel dettaglio ma è come se
mi fossi seduto lì a parlare di questi piatti in modo informale, preciso (in
cucina non si scherza!) ma sempre con il piacere di raccontare un mondo che
amo. E’ tutta questione di cultura del cibo che non deve mai essere
sottovalutata.
Queste sono le
parole di Cracco, punteggiatura inclusa (a
tratti mi pareva di leggere James Joyce e il suo stream of consciousness) e
sono parole che condivido pienamente.
Cracco quindi
promette informalità ma precisione e un grande rispetto per la tradizione e la cultura del cibo.
Talvolta nel libro la tradizione viene innovata, e ci mancherebbe: troviamo allora al
termine di una ricetta il paragrafo intitolato “Il tocco dello chef”, che ci svela trucchi, segreti e varianti.
Vediamo dunque in
che modo Cracco ha seguito e rispettato la tradizione di un piatto molto
popolare, che viene dritto dalla Terra dei miei Avi. Non mi soffermerò neppure
un istante a considerare se si debba dire arancine
o arancini, questa è una diatriba
irrisolta tra gli stessi siciliani e non attiene alla ricetta vera e propria.
La ricetta è la
primissima del III livello, quello più avanzato.
ARANCINI
Da: Carlo Cracco –
Se vuoi fare il figo usa lo scalogno – Rizzoli
L’arancino è un cibo da strada, davvero
particolarissimo, molto nobile e tipicamente siciliano. E’ bellissimo anche nel
suo aspetto e inoltre dà un sacco di spunti per inventare idee nuove. Si può
preparare partendo da zero, oppure usando gli avanzi, ed è proprio così che
nasce in verità: dal recupero. E’ interessante notare in che modo la tradizione
riesce sempre a valorizzare gli scarti.
Per 6 persone:
50 g di piselli freschi (o surgelati)
100 g di ragù alla bolognese piuttosto asciutto
(non deve esserci troppo olio o sugo)
80 g di mozzarella
2 uova
300 g di pane grattugiato
Olio evo
Sale
Preparazione e cottura: 45 minuti (25 se il riso è
già pronto)
ATTENZIONE: se fate arancini molto piccoli vi
consiglio di farcirli semplicemente con ragù e piselli, senza la mozzarella,
perché altrimenti rischia di scappare fuori.
Scusate se mi
fermo fin dagli ingredienti, ma già qui vedo che qualcosa non va: le arancine
tradizionali siciliane hanno due tipi di ripieno: quello alla carne (con ragù e
piselli) e quello detto "al burro" (con scamorza e prosciutto cotto). Arancine alla carne con
mozzarella io non ne ho viste mai, e anche se è vero che si può giocare all’infinito
con i ripieni, devo dire che l’accoppiata ragù-mozzarella mi stupisce un po', tanto
più che Cracco nell’introduzione sembra volerci dare una ricetta tradizionale.
L’altra e più
grave perplessità riguarda il tipo di riso da usare, cui Cracco non fa alcun
cenno. Lui parla di risotto allo zafferano rimandando chiaramente alla ricetta che ha pubblicato sul libro, ma le arancine esigono un tipo di riso ben
preciso, l’Originario, dal chicco piccolo e tondo e che rilascia molto amido.
La quantità di amido rilasciata dal riso è fondamentale nelle arancine, perché
è il collante principale. Al massimo si può usare il riso Roma, le altre
varietà non sono sufficientemente amidacee.
Di fronte alla fondamentale
questione del riso preferisco sorvolare anche sul fatto che il ragù siciliano è
nettamente diverso da quello bolognese, e anzi decido di cercare nel libro la
ricetta di detto ragù, per fare le cose il più “by the book (Cracco's book)” possibile.
Ragù alla bolognese di
Cracco
Pag. 131, lezione n. 31
Tritate 500 g di carne di maiale (se non l’avete
già fatto fare dal vostro macellaio) e dividetela in tre parti. Rosolare la
prima in una padella antiaderente a fuoco forte con un filo d’olio extravergine
d’oliva (finalmente lo
scrive per esteso!!!!) e 1 spicchio d’aglio,
sfumatela con mezzo bicchiere di vino rosso, quindi scolatela in un colapasta
appoggiato su una ciotola ampia, in modo da raccogliere i succhi che serviranno
dopo. Ripetete l’operazione separatamente anche per le altre due parti di
carne. Tritate un gambo di sedano, una carota e una cipolla, rosolateli con 100
g di burro (cento grammi di burro????),
poi aggiungete gli odori (quali odori?)
e tutta la carne, cuocete per qualche minuto, salate e pepate. Unite 500 g di
pomodori pelati (o di passata pronta, l’importante è che sia di qualità) e i
succhi precedentemente raccolti, lasciate cuocere a fuoco lento per circa un’ora.
Questa secondo
Cracco sarebbe la ricetta tradizionale del ragù alla bolognese: solo carne di
maiale, una quantità di burro da fare accapponare la pelle,
niente latte e un bicchiere e mezzo di vino. Nonostante l’evidente non-bolognesità ho voluto ugualmente fare il ragù à la Craccò, perché mi interessava provare il procedimento delle rosolature separate e della raccolta dei sughi della carne. Ho apportato qualche variante però,
diminuendo il vino e pure le quantità di burro (20 g per me erano più che
sufficienti, tanto più che abbiamo usato l’olio in 3 riprese per rosolare la
carne). Nonostante i correttivi il ragù mi è venuto decisamente più unto del
solito e anche meno buono, perché per il resto ho seguito le indicazioni di
Cracco e ho contravvenuto alle regole per preparare un buon soffritto che avevo appreso dalle Simili: la
differenza si sente, eccome!
Ma andiamo avanti
con la ricetta delle arancine.
Per prima cosa, dovete avere in casa del risotto
allo zafferano (ricetta a pag. 45) (a pag. 45 c'è la lezione sulla reazione di Maillard e il prosieguo della ricetta dell'arrosto alle cipolle; il risotto allo zafferano è a pag. 49) avanzato, ma se volete prepararlo apposta –
anche se in realtà gli arancini vengono meglio con gli *avanzi* (lezione n. 46)
– non c’è bisogno che usiate i pistilli, va benissimo anche la polvere di
zafferano (io ho preso
per buona l’indicazione di Cracco sugli avanzi e la sera prima ho preparato un
risotto allo zafferano con 500 g di riso Originario e del brodo vegetale, poi ho deciso che mi avanzava tutto ^_^ ). Lo mantecate con il grana e non aggiungete
il burro (al limite appena un po’ di olio), cuocere 3 minuti in più perché deve
essere ben cotto (assolutamente non al dente, ma nemmeno stracotto) e infine lo
fate raffreddare, stendendolo su una teglia ampia e tenendolo in frigo oppure
all’aria.
Eh no Chef, qui
proprio non ci siamo.
Non ci siamo per
niente.
Il risotto delle
arancine deve essere cotto al dente (non dimentichiamo che subirà un ulteriore processo
di cottura in olio profondo) e la sua temperatura va abbattuta subito
immergendo la pentola in acqua e ghiaccio, proprio per fermarne la cottura. La
mantecatura va fatta col burro e non con l’olio perché il burro solidificando
in frigo dà ulteriore compattezza e infine il riso va fatto raffreddare per
qualche ora (meglio per tutta la notte) in frigo e mai all’aria. Se non si fa
così si rischia che le arancine si sfascino in cottura.
Però Chef, adesso ho
capito perché tutte le volte che mi sono lasciata tentare da un’arancina qui
nel freddo Nodd sono rimasta delusa e ho trovato il riso scotto: se nelle
scuole alberghiere vi insegnano a farle così, sfido io che non riuscirete mai a
eguagliare le nostre!!! E' solo che da lei francamente mi sarei aspettata di più. Il tocco
dello chef, appunto.
Andiamo avanti, va…
Quindi impastate il risotto con i piselli e il
*ragù di carne* (lezione n. 31) classico, alla bolognese, bello ricco e molto
asciutto (se è liquido, il riso si separa). Del ragù mettete solo la carne:
anche se l’arancino è un po’ bianco fa niente, basta che sia asciutto.
E’ a questo punto
che inizio a trasecolare.
Non credo letteralmente a quello che sto leggendo.
Di
più: spero ardentemente che una nuova tecnologia abbia introdotto le gif
animate sulla carta stampata, e che le poche righe sopra riportate cambino carattere
e colore dell’inchiostro e dicano qualcosa del tipo: “Scherzetto! Ci sei
cascata! Hai avuto paura, eh?”, riportando poi il procedimento corretto. Invece
no. Nessuna nuova tecnologia e nessuna gif animata: Cracco mi ha appena detto
di mischiare il ragù (solo la carne: Chef, mi vuole spiegare cortesemente come
faccio eliminare il pomodoro e il soffritto?) e i piselli CRUDI al riso. Anche se i piselli fossero cotti e lui si fosse dimenticato di
precisarlo (alla faccia di quanto ha scritto nell’introduzione circa la
precisione e il fatto che in cucina non si scherza), un’operazione del genere
equivale a una bestemmia culinaria. Le arancine prevedono un risotto giallo o
bianco ben distinto dal ripieno, sicuramente non mischiato ad esso. Ma Cracco fa
lo gnorri e prosegue:
Formate delle palline (per non sporcarvi le mani
potete indossare un guanto, anche se secondo me è anche questo un po’ il bello degli
arancini, no?), inserite in ogni pallina un paio di cubetti di mozzarella,
chiudendoli bene dentro, quindi passatele prima nell’uovo sbattuto e poi nel
pane grattugiato. Potete impanare gli arancini una volta sola (è la cosa
migliore, secondo me), se invece li volete più croccanti fatelo due volte.
Lasciateli raffreddare in frigo coperti con pellicola per una notte o meglio
ancora in freezer per 2 ore. Quando sono belli freddi, li friggete in olio d’oliva
abbondante, scolate su carta assorbente da cucina e servite dopo averli salati
leggermente in superficie.
A questo punto
sono stesa.
Sono
letteralmente K.O.
Qualcuno mi
faccia annusare i sali.
Sono così debole
che faccio perfino fatica a chiedere a Cracco se lui la mozzarella la fa
scolare un paio d’ore su un doppio foglio di carta da cucina, o se invece usa
quelle pseudo-mozzarelle confezionate, asciuttissime, compatte e dal
distintivo sapore di plastica.
E che dire dell’uovo
sbattuto usato per fare aderire il pangrattato? E della frittura in olio
abbondante, anziché in olio profondo? E della salatura dopo la frittura? E come
si conciliano i 25-45 minuti di tempo di preparazione con il raffreddamento del
riso da 2 ore a tutta la notte?
Ma al momento queste
sono quisquilie passate in secondo piano, seppellite da una questione ancora
più grave.
La prego Chef, mi
dica che conosce la differenza tra un’arancina, un supplì e una crocchetta di
riso.
Perché questa “cosa”
non è un’arancina: sembra piuttosto il prodotto di un amplesso particolarmente
movimentato tra un’arancina alla carne e un supplì al telefono, e l’ibrido che
ne è risultato assomiglia a una crocchetta pasticciata e farcita. Certamente
non è un’arancina.
Alla disperata
ricerca di una conferma, leggo la lezione n. 46 sugli avanzi, da lui citata
sopra. Vi risparmio e non ve la riporto tutta, solo un passaggio:
A me [l’arancino] piace tantissimo con solo la
liquirizia: prendete il bastoncino, lo grattugiate e, quando avete fatto la
pallina di riso, spolverate appena appena l’arancino con un velo di liquirizia
e poi lo impanate. Sembra dolce, ma è anche salato: vi fa viaggiare.
Non lo sa.
Non ne
ha la benché minima idea.
Cracco pensa che il nome “arancina” (o “arancino”, in
questo momento non ha importanza) si possa applicare a qualsiasi crocchetta di
riso dalla forma tonda. Non ha idea quindi della differenza tra crocchetta di
riso e arancina, con tutto che nell'introduzione alla ricetta aveva definito le arancine "un cibo molto nobile e tipicamente siciliano". Che cosa è rimasto di tipico nella sua ricetta? Decisamente, la liquirizia lo fa viaggiare.
Presa dallo
sconforto esclamo: “Ma se le arancine potessero parlare, che cosa direbbero?”.
Ed è a questo
punto che nella mente mi si forma un’immagine.
Chiara, netta e
precisa:
Perché vede Chef,
le arancine sono un’altra cosa.
Se vuole scoprire
come si fanno veramente le consiglio di andare a leggere qui: è un post scritto
da una mia amica virtuale, Roberta, che non sarà una chef stellata, ma le
arancine le sa fare.
Da Roberta apprenderà
che l’uovo sbattuto con le arancine non c’entra niente e che per fare aderire
la panatura occorre preparare una lega formata da 1 parte di farina 00 e 2
parti di acqua, con una presa di sale (che elimina la necessità di salare le
arancine dopo la frittura).
Roberta le
spiegherà che dopo aver formato le palline di riso occorre rimetterle in frigo
per solidificarle ancora, prima di farcirle. Le spiegherà
anche che la frittura va fatta in olio di semi (non di oliva) profondo e non
semplicemente abbondante.
Ma adesso basta
coi predicozzi, passiamo alle prove successive.
Intanto è mio
dovere precisare che ho voluto seguire il metodo Cracco con soli 2 ibridi; il
resto del risotto l’ho utilizzato per fare delle arancine vere, come Dio
comanda, seguendo la ricetta di Roberta (tranne per il ragù, che era quello à la Craccò e che ho reso più asciutto facendolo
scolare per un paio d’ore in un piccolo scolapasta). I piselli (freschi, appena
sgranati) li ho cotti al burro esattamente come indicato da Roberta nel post linkato sopra.
Osserviamo le due
arancine (anzi, l’arancina e l’ibrido). L’arancina è sferica e uniformemente
dorata, l’ibrido è macchiato e ha l’aspetto irregolare (mi ricorda l'Urlo di Munch), nonostante all’origine
fosse sferico come tutte le altre arancine: questo secondo me (ma potrei sbagliarmi) è dovuto all’uovo, che
gonfiandosi irregolarmente durante frittura ha fatto assumere questo aspetto finale. In ogni caso ho visto la panatura dell'ibrido gonfiarsi in più punti in frittura, mentre quella delle arancine è rimasta al suo posto.
Apriamo l’arancina
e l’ibrido e osserviamoli. L’ibrido ha un aspetto francamente rivoltante. La
mozzarella, che non ho fatto scolare seguendo le indicazioni (o forse farei
meglio a dire omissioni?) di Cracco, ha rilasciato un’acquetta tutt’altro che
gradevole alla vista e l’ibrido è risultato più molliccio e meno compatto visto che il
riso è stato mischiato con del ragù che, per quanto asciutto, ha interferito
con l'azione dell'amido.
Il sapore dell’ibrido
è buono visto che gli ingredienti di partenza lo erano, ma non è pulito, risulta
“pasticciato”, mentre gustando l’arancina abbiamo la netta distinzione dei
sapori del riso allo zafferano e del ragù coi piselli.
Anche le mie
arancine hanno un difetto, però: la scarsità della farcia. Ho sempre paura di
metterne troppa e che fuoriesca in cottura, ma devo sforzarmi di metterne un po’
di più.
Per il resto le mie sono vere arancine, mentre quelle di Cracco…
BOCCIATO
Chef, se si
presentasse in Sicilia con una ricetta del genere la prenderebbero a fischi e piriti (a fischi e
pernacchie).
Con questa
ricetta ha preso a calci una tradizione secolare, dimostrato di non sapere la
differenza tra una crocchetta di riso e un’arancina, di non conoscere le
diverse varietà di riso e i loro usi, e ha disatteso quanto aveva scritto nell’introduzione del suo libro:
Qual è la storia del territorio in cui sono nati?
Più lineare, chiaro e sano è questo percorso, tanto più forte sarà il messaggio
che il piatto potrà portare con se’ e quindi le emozioni che suggerirà a chi lo
assaggia.
Le emozioni che
nascono guardando e assaggiando il suo ibrido preferisco non enunciarle.
Lascio
questo onore al suo collega di Masterchef Joe Bastianich, che ha già ampiamente
dimostrato di avere un vasto repertorio di termini atti a descrivere scempi del
genere.