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martedì 30 aprile 2013

TIRIAMO LE SOMME?



PicMonkey Collage1 Liberi di non crederci: ma in questo momento, preferirei essere altrove. 
Perchè tirare le somme su quello che, finora, è il fiasco più clamoroso dello StarBooks, di gran lunga più eclatante della non brillantissima My Little Kitchen in Paris di  Rachel Khoo (ad oggi il libro meno affidabile della nostra biblioteca) è un compito tutt'altro che piacevole. 
E' chiaro che non era prevista, una simile debacle. Cercavamo un titolo importante, per inaugurare il nuovo blog, lo cercavamo fra quelli italiani, per rispondere alle sempre più pressanti richieste dei nostri lettori e Se vuoi fare il figo sembrava corrispondere in pieno a questi requisiti. Senza contare la fama del suo autore, che per noi rappresentava l'assoluta garanzia di un inizio scoppiettante, divertente, esaltante, quale avremmo voluto che fosse l'incipit della nuova avventura sul web. Evidentemente, ci siamo sbagliate. 
O meglio: siamo state ingannate.
Prese in giro.
Turlupinate.
Perchè, vedete, non è che quando si sceglie un libro per lo SB ci si basi su parametri differenti da quelli che si adottano ogni qualvolta si decide di acquistare un libro, anche al di fuori dalle finalità del nostro progetto: le spie sono le stesse, sempre: l'affidabilità dell'autore, la serietà della casa editrice, le dichiarazioni di intenti che solitamente campeggiano in copertina. In più, le Starbookers li discutono, i titoli scelti: e laddove non arriva l'intuizione dell'una, c'è sempre un'altra pronta a suggerire, a raddrizzare, a trovare il difetto o il pregio che poteva essere sfuggito.
Un lavoro di squadra, fatto da maniache esperte, con un collaudo di oltre due anni.
Di conseguenza,  se finora, salvo l'eccezione di cui sopra, siamo sempre andate a colpo sicuro, questo ci fa presumere che non siano i nostri criteri di selezione ad essere errati, quanto l'uso distorto che se ne è fatto, nello specifico di questo libro.

Le ricette delle Starbookers
Savoiardi (Patty)
Pasta e fagioli (Cristina)
Arancini (Mapi)


Alzi la mano chi, vedendo Carlo Cracco in copertina, non si sarebbe aspettato un'opera intrisa di quelle peculiarità che hanno fatto di lui uno degli chef più quotati d'Italia- vale a dire, una concezione del cibo  colta, alta, raffinata e nel contempo di spessore, quale è quella che vien sbandierata ogni qualvolta si parla di lui, che si tratti di recensioni gastronomiche per pochi o di battute da siparietto televisivo, per il resto del mondo. 
Alzi la mano chi, leggendo "Rizzoli", avrebbe dubitato della serietà di un lavoro redazionale degno di questo nome- e cioè attento, preciso, elegante. 
E alzi la mano, infine, chi, leggendo in copertina "imparare a cucinare in 60 ricette", non avrebbe pensato ad una sorta di corso di cucina per principianti, a maggior ragione se la "quarta" rincarava la dose, promettendo l'insegnamento di tutto lo scibile culinario, con tanto di porche figure annesse.
Quello che è accaduto, è sotto gli occhi di tutti. Lo avete visto ogni giorno, da tre settimane- e soffermarcisi oltre non lenirebbe in alcun modo la nostra arrabbiatura. 
Quello che invece non si è visto, celato com'era fra le righe di una prosa scalcagnata e naive, è stato il modo con cui Cracco ha trattato i suoi lettori, dalla prima all'ultima ricetta.
Altezzoso.
Strafottente
Spocchioso.
E' stato altezzoso, quando ha omesso spiegazioni doverose, dando per scontate tecniche che un principiante è lontanissimo dall'aver acquisito; strafottente, quando  ha messo sotto ai piedi  la dignità della tradizione gastronomica del nostro Paese, stravolgendo ricette a suo piacimento, senza mai degnarsi di ricordare che l'originale è tutta un'altra cosa; ed è stato spocchioso ogni volta che si è infischiato della lingua italiana, abbruttita da una prosa scalcinata e scorretta,  sprezzante delle più elementari regole della grammatica e della sintassi.
A dirla tutta, è stato ingannevole pure il peraltro pessimo titolo. Se al posto di "Se vuoi fare il figo, usa lo scalogno", ci fosse stato scritto "Se non sai cucinare, sono affari tuoi", il vero messaggio del libro sarebbe arrivato in maniera più forte e più incisiva: quanto meno, ci saremmo messe il cuore in pace, sin dall'inizio. E il libro sarebbe rimasto dove doveva stare, vale a dire a prender polvere sugli scaffali delle librerie.
Quelle degli altri,  sia chiaro.



Un'ultima annotazione, legata allo stile. Chi scrive non ha mai considerato la conoscenza della lingua italiana un parametro per misurare la caratura professionale di chi si occupa di tutt'altro. Ai tempi delle barzellette su Totti, ero una dei pochi che lo difendeva dalle accuse di ignoranza, sostenendo che quello che si richiede a un calciatore è di buttarla dentro, non certo di recitare le terzine di Dante a memoria.
Lo stesso vale per Cracco: è uno chef- e non è tenuto a parlare un italiano forbito. 
A meno che non decida di scrivere un libro. 
Perchè, in quel caso, le cose cambiano. 
Eccome se cambiano. 
Forse che, quando un concorrente di Masterchef presenta un piatto sbagliato, si chiude un occhio, perchè la sua professione non è quella del cuoco?
Mutatis mutandis, il principio è lo stesso: non è che ci si possa scandalizzare a senso unico, solo se ci si chiama Cracco e se l'ambito che viene violato è quello della cucina.
Se vuoi fare il figo, cioè, impara l'Italiano. 
Perchè se  scrivi un libro, lo metti sul mercato, imponi un prezzo di copertina, devi mostrare rispetto: per quello che scrivi, per come lo scrivi. E, in ultima analisi, per chi lo scrivi. Che merita rispetto, ancor più della materia trattata e dello stile usato per raccontarla: quel rispetto che gli deriva dall'essersi fatto tuo lettore, dall'essersi fidato delle tue promesse, dall'aver investito del denaro (perchè se un libro è sempre un investimento, un manuale di cucina lo è di più) per scegliere, fra le tante, l'opera che hai scritto tu-e tu solo.
Acquistare un libro, insomma, è un atto di fiducia.
A volte, anche d'amore.
E non c'è dolore più grande che l'essere presi in giro da chi pensavi che questa fiducia, questa stima, questo amore, se li potesse meritare.
Adieu, chef.
A mai più.

Alessandra Gennaro

P.S. Ricordo che domani per il resto del mondo è il I maggio, Festa del Lavoro. Per noi, invece, è il I Maggio- primo mercoledì del mese, Festa dello Starbook- Redone. Vi aspettiamo qui, con le vostre ricette!

lunedì 29 aprile 2013

GLI ARANCINI DI CARLO CRACCO



Questa volta per recensire la ricetta parto da lontano. Più precisamente, parto dall’introduzione del libro stesso, dove Cracco dichiara qual’era il suo intento nel mandare alle stampe codesto capolavoro. Non ve la copio tutta naturalmente, solo alcuni passaggi.

Il cibo non è solo ciò che ci permette di accumulare l’energia necessaria a vivere, è molto di più. A esso si lega una storia di luoghi, di tradizioni e di persone che lo rendono davvero unico. Cucinare un piatto è solo l’ultima tappa di un percorso prezioso grazie al quale gli ingredienti acquistano ricchezza e bontà. Per questo in cucina è fondamentale chiedersi sempre: da dove vengono i cibi che usiamo? Chi li ha prodotti? Qual è la storia del territorio in cui sono nati? Più lineare, chiaro e sano è questo percorso, tanto più forte sarà il messaggio che il piatto potrà portare con se’ e quindi le emozioni che suggerirà a chi lo assaggia.
Anche per questo motivo non ho voluto fare solo un libro che raccogliesse le ricette con dosi e procedimenti ma mi è piaciuto dare un contesto e un racconto unico per ognuna e approfondirne gli aspetti che a me stanno più a cuore, con anche delle vere e proprie lezioni di cucina che vi insegnano sia le basi sia le preparazioni difficili. E’ un libro anche molto pratico, ovviamente, in cui le ricette sono spiegate nel dettaglio ma è come se mi fossi seduto lì a parlare di questi piatti in modo informale, preciso (in cucina non si scherza!) ma sempre con il piacere di raccontare un mondo che amo. E’ tutta questione di cultura del cibo che non deve mai essere sottovalutata.

Queste sono le parole di Cracco, punteggiatura inclusa (a tratti mi pareva di leggere James Joyce e il suo stream of consciousness) e sono parole che condivido pienamente.
Cracco quindi promette informalità ma precisione e un grande rispetto per la tradizione e la cultura del cibo. Talvolta nel libro la tradizione viene innovata, e ci mancherebbe: troviamo allora al termine di una ricetta il paragrafo intitolato “Il tocco dello chef”, che ci svela trucchi, segreti e varianti. 

Vediamo dunque in che modo Cracco ha seguito e rispettato la tradizione di un piatto molto popolare, che viene dritto dalla Terra dei miei Avi. Non mi soffermerò neppure un istante a considerare se si debba dire arancine o arancini, questa è una diatriba irrisolta tra gli stessi siciliani e non attiene alla ricetta vera e propria.

La ricetta è la primissima del III livello, quello più avanzato.


ARANCINI
Da: Carlo Cracco – Se vuoi fare il figo usa lo scalogno – Rizzoli


L’arancino è un cibo da strada, davvero particolarissimo, molto nobile e tipicamente siciliano. E’ bellissimo anche nel suo aspetto e inoltre dà un sacco di spunti per inventare idee nuove. Si può preparare partendo da zero, oppure usando gli avanzi, ed è proprio così che nasce in verità: dal recupero. E’ interessante notare in che modo la tradizione riesce sempre a valorizzare gli scarti.

Per 6 persone:

50 g di piselli freschi (o surgelati)
100 g di ragù alla bolognese piuttosto asciutto (non deve esserci troppo olio o sugo)
80 g di mozzarella
2 uova
300 g di pane grattugiato
Olio evo
Sale

Preparazione e cottura: 45 minuti (25 se il riso è già pronto)

ATTENZIONE: se fate arancini molto piccoli vi consiglio di farcirli semplicemente con ragù e piselli, senza la mozzarella, perché altrimenti rischia di scappare fuori.

Scusate se mi fermo fin dagli ingredienti, ma già qui vedo che qualcosa non va: le arancine tradizionali siciliane hanno due tipi di ripieno: quello alla carne (con ragù e piselli) e quello detto "al burro" (con scamorza e prosciutto cotto). Arancine alla carne con mozzarella io non ne ho viste mai, e anche se è vero che si può giocare all’infinito con i ripieni, devo dire che l’accoppiata ragù-mozzarella mi stupisce un po', tanto più che Cracco nell’introduzione sembra volerci dare una ricetta tradizionale.

L’altra e più grave perplessità riguarda il tipo di riso da usare, cui Cracco non fa alcun cenno. Lui parla di risotto allo zafferano rimandando chiaramente alla ricetta che ha pubblicato sul libro, ma le arancine esigono un tipo di riso ben preciso, l’Originario, dal chicco piccolo e tondo e che rilascia molto amido. La quantità di amido rilasciata dal riso è fondamentale nelle arancine, perché è il collante principale. Al massimo si può usare il riso Roma, le altre varietà non sono sufficientemente amidacee.
Di fronte alla fondamentale questione del riso preferisco sorvolare anche sul fatto che il ragù siciliano è nettamente diverso da quello bolognese, e anzi decido di cercare nel libro la ricetta di detto ragù, per fare le cose il più “by the book (Cracco's book)” possibile.

Ragù alla bolognese di Cracco
Pag. 131, lezione n. 31

Tritate 500 g di carne di maiale (se non l’avete già fatto fare dal vostro macellaio) e dividetela in tre parti. Rosolare la prima in una padella antiaderente a fuoco forte con un filo d’olio extravergine d’oliva (finalmente lo scrive per esteso!!!!) e 1 spicchio d’aglio, sfumatela con mezzo bicchiere di vino rosso, quindi scolatela in un colapasta appoggiato su una ciotola ampia, in modo da raccogliere i succhi che serviranno dopo. Ripetete l’operazione separatamente anche per le altre due parti di carne. Tritate un gambo di sedano, una carota e una cipolla, rosolateli con 100 g di burro (cento grammi di burro????), poi aggiungete gli odori (quali odori?) e tutta la carne, cuocete per qualche minuto, salate e pepate. Unite 500 g di pomodori pelati (o di passata pronta, l’importante è che sia di qualità) e i succhi precedentemente raccolti, lasciate cuocere a fuoco lento per circa un’ora.

Questa secondo Cracco sarebbe la ricetta tradizionale del ragù alla bolognese: solo carne di maiale, una quantità di burro da fare accapponare la pelle, niente latte e un bicchiere e mezzo di vino. Nonostante l’evidente non-bolognesità ho voluto ugualmente fare il ragù à la Craccò, perché mi interessava provare il procedimento delle rosolature separate e della raccolta dei sughi della carne. Ho apportato qualche variante però, diminuendo il vino e pure le quantità di burro (20 g per me erano più che sufficienti, tanto più che abbiamo usato l’olio in 3 riprese per rosolare la carne). Nonostante i correttivi il ragù mi è venuto decisamente più unto del solito e anche meno buono, perché per il resto ho seguito le indicazioni di Cracco e ho contravvenuto alle regole per preparare un buon soffritto che avevo appreso dalle Simili: la differenza si sente, eccome!
Ma andiamo avanti con la ricetta delle arancine.

Per prima cosa, dovete avere in casa del risotto allo zafferano (ricetta a pag. 45) (a pag. 45 c'è la lezione sulla reazione di Maillard e il prosieguo della ricetta dell'arrosto alle cipolle; il risotto allo zafferano è a pag. 49) avanzato, ma se volete prepararlo apposta – anche se in realtà gli arancini vengono meglio con gli *avanzi* (lezione n. 46) – non c’è bisogno che usiate i pistilli, va benissimo anche la polvere di zafferano (io ho preso per buona l’indicazione di Cracco sugli avanzi e la sera prima ho preparato un risotto allo zafferano con 500 g di riso Originario e del brodo vegetale, poi ho deciso che mi avanzava tutto ^_^ ). Lo mantecate con il grana e non aggiungete il burro (al limite appena un po’ di olio), cuocere 3 minuti in più perché deve essere ben cotto (assolutamente non al dente, ma nemmeno stracotto) e infine lo fate raffreddare, stendendolo su una teglia ampia e tenendolo in frigo oppure all’aria.

Eh no Chef, qui proprio non ci siamo.
Non ci siamo per niente.
Il risotto delle arancine deve essere cotto al dente (non dimentichiamo che subirà un ulteriore processo di cottura in olio profondo) e la sua temperatura va abbattuta subito immergendo la pentola in acqua e ghiaccio, proprio per fermarne la cottura. La mantecatura va fatta col burro e non con l’olio perché il burro solidificando in frigo dà ulteriore compattezza e infine il riso va fatto raffreddare per qualche ora (meglio per tutta la notte) in frigo e mai all’aria. Se non si fa così si rischia che le arancine si sfascino in cottura. 
Però Chef, adesso ho capito perché tutte le volte che mi sono lasciata tentare da un’arancina qui nel freddo Nodd sono rimasta delusa e ho trovato il riso scotto: se nelle scuole alberghiere vi insegnano a farle così, sfido io che non riuscirete mai a eguagliare le nostre!!! E' solo che da lei francamente mi sarei aspettata di più. Il tocco dello chef, appunto. 
Andiamo avanti, va…

Quindi impastate il risotto con i piselli e il *ragù di carne* (lezione n. 31) classico, alla bolognese, bello ricco e molto asciutto (se è liquido, il riso si separa). Del ragù mettete solo la carne: anche se l’arancino è un po’ bianco fa niente, basta che sia asciutto.

E’ a questo punto che inizio a trasecolare. 
Non credo letteralmente a quello che sto leggendo. 
Di più: spero ardentemente che una nuova tecnologia abbia introdotto le gif animate sulla carta stampata, e che le poche righe sopra riportate cambino carattere e colore dell’inchiostro e dicano qualcosa del tipo: “Scherzetto! Ci sei cascata! Hai avuto paura, eh?”, riportando poi il procedimento corretto. Invece no. Nessuna nuova tecnologia e nessuna gif animata: Cracco mi ha appena detto di mischiare il ragù (solo la carne: Chef, mi vuole spiegare cortesemente come faccio eliminare il pomodoro e il soffritto?) e i piselli CRUDI al riso. Anche se i piselli fossero cotti e lui si fosse dimenticato di precisarlo (alla faccia di quanto ha scritto nell’introduzione circa la precisione e il fatto che in cucina non si scherza), un’operazione del genere equivale a una bestemmia culinaria. Le arancine prevedono un risotto giallo o bianco ben distinto dal ripieno, sicuramente non mischiato ad esso. Ma Cracco fa lo gnorri e prosegue:

Formate delle palline (per non sporcarvi le mani potete indossare un guanto, anche se secondo me è anche questo un po’ il bello degli arancini, no?), inserite in ogni pallina un paio di cubetti di mozzarella, chiudendoli bene dentro, quindi passatele prima nell’uovo sbattuto e poi nel pane grattugiato. Potete impanare gli arancini una volta sola (è la cosa migliore, secondo me), se invece li volete più croccanti fatelo due volte. Lasciateli raffreddare in frigo coperti con pellicola per una notte o meglio ancora in freezer per 2 ore. Quando sono belli freddi, li friggete in olio d’oliva abbondante, scolate su carta assorbente da cucina e servite dopo averli salati leggermente in superficie.  

A questo punto sono stesa.
Sono letteralmente K.O.
Qualcuno mi faccia annusare i sali.
Sono così debole che faccio perfino fatica a chiedere a Cracco se lui la mozzarella la fa scolare un paio d’ore su un doppio foglio di carta da cucina, o se invece usa quelle pseudo-mozzarelle confezionate, asciuttissime, compatte e dal distintivo sapore di plastica.  
E che dire dell’uovo sbattuto usato per fare aderire il pangrattato? E della frittura in olio abbondante, anziché in olio profondo? E della salatura dopo la frittura? E come si conciliano i 25-45 minuti di tempo di preparazione con il raffreddamento del riso da 2 ore a tutta la notte?
Ma al momento queste sono quisquilie passate in secondo piano, seppellite da una questione ancora più grave.

La prego Chef, mi dica che conosce la differenza tra un’arancina, un supplì e una crocchetta di riso.
Perché questa “cosa” non è un’arancina: sembra piuttosto il prodotto di un amplesso particolarmente movimentato tra un’arancina alla carne e un supplì al telefono, e l’ibrido che ne è risultato assomiglia a una crocchetta pasticciata e farcita. Certamente non è un’arancina.
Alla disperata ricerca di una conferma, leggo la lezione n. 46 sugli avanzi, da lui citata sopra. Vi risparmio e non ve la riporto tutta, solo un passaggio:

A me [l’arancino] piace tantissimo con solo la liquirizia: prendete il bastoncino, lo grattugiate e, quando avete fatto la pallina di riso, spolverate appena appena l’arancino con un velo di liquirizia e poi lo impanate. Sembra dolce, ma è anche salato: vi fa viaggiare.

Non lo sa. 
Non ne ha la benché minima idea. 
Cracco pensa che il nome “arancina” (o “arancino”, in questo momento non ha importanza) si possa applicare a qualsiasi crocchetta di riso dalla forma tonda. Non ha idea quindi della differenza tra crocchetta di riso e arancina, con tutto che nell'introduzione alla ricetta aveva definito le arancine "un cibo molto nobile e tipicamente siciliano". Che cosa è rimasto di tipico nella sua ricetta? Decisamente, la liquirizia lo fa viaggiare. 

Presa dallo sconforto esclamo: “Ma se le arancine potessero parlare, che cosa direbbero?”.
Ed è a questo punto che nella mente mi si forma un’immagine.
Chiara, netta e precisa:


Perché vede Chef, le arancine sono un’altra cosa.
Se vuole scoprire come si fanno veramente le consiglio di andare a leggere qui: è un post scritto da una mia amica virtuale, Roberta, che non sarà una chef stellata, ma le arancine le sa fare.
Da Roberta apprenderà che l’uovo sbattuto con le arancine non c’entra niente e che per fare aderire la panatura occorre preparare una lega formata da 1 parte di farina 00 e 2 parti di acqua, con una presa di sale (che elimina la necessità di salare le arancine dopo la frittura).
Roberta le spiegherà che dopo aver formato le palline di riso occorre rimetterle in frigo per solidificarle ancora, prima di farcirle. Le spiegherà anche che la frittura va fatta in olio di semi (non di oliva) profondo e non semplicemente abbondante.

Ma adesso basta coi predicozzi, passiamo alle prove successive.
Intanto è mio dovere precisare che ho voluto seguire il metodo Cracco con soli 2 ibridi; il resto del risotto l’ho utilizzato per fare delle arancine vere, come Dio comanda, seguendo la ricetta di Roberta (tranne per il ragù, che era quello à la Craccò e che ho reso più asciutto facendolo scolare per un paio d’ore in un piccolo scolapasta). I piselli (freschi, appena sgranati) li ho cotti al burro esattamente come indicato da Roberta nel post linkato sopra.



Osserviamo le due arancine (anzi, l’arancina e l’ibrido). L’arancina è sferica e uniformemente dorata, l’ibrido è macchiato e ha l’aspetto irregolare (mi ricorda l'Urlo di Munch), nonostante all’origine fosse sferico come tutte le altre arancine: questo secondo me (ma potrei sbagliarmi) è dovuto all’uovo, che gonfiandosi irregolarmente durante frittura ha fatto assumere questo aspetto finale. In ogni caso ho visto la panatura dell'ibrido gonfiarsi in più punti in frittura, mentre quella delle arancine è rimasta al suo posto.


Apriamo l’arancina e l’ibrido e osserviamoli. L’ibrido ha un aspetto francamente rivoltante. La mozzarella, che non ho fatto scolare seguendo le indicazioni (o forse farei meglio a dire omissioni?) di Cracco, ha rilasciato un’acquetta tutt’altro che gradevole alla vista e l’ibrido è risultato più molliccio e meno compatto visto che il riso è stato mischiato con del ragù che, per quanto asciutto, ha interferito con l'azione dell'amido.


Il sapore dell’ibrido è buono visto che gli ingredienti di partenza lo erano, ma non è pulito, risulta “pasticciato”, mentre gustando l’arancina abbiamo la netta distinzione dei sapori del riso allo zafferano e del ragù coi piselli.
Anche le mie arancine hanno un difetto, però: la scarsità della farcia. Ho sempre paura di metterne troppa e che fuoriesca in cottura, ma devo sforzarmi di metterne un po’ di più.


Per il resto le mie sono vere arancine, mentre quelle di Cracco…

BOCCIATO

Chef, se si presentasse in Sicilia con una ricetta del genere la prenderebbero a fischi e piriti (a fischi e pernacchie).
Con questa ricetta ha preso a calci una tradizione secolare, dimostrato di non sapere la differenza tra una crocchetta di riso e un’arancina, di non conoscere le diverse varietà di riso e i loro usi, e ha disatteso quanto aveva scritto nell’introduzione del suo libro: 

Qual è la storia del territorio in cui sono nati? Più lineare, chiaro e sano è questo percorso, tanto più forte sarà il messaggio che il piatto potrà portare con se’ e quindi le emozioni che suggerirà a chi lo assaggia.  

Le emozioni che nascono guardando e assaggiando il suo ibrido preferisco non enunciarle. 
Lascio questo onore al suo collega di Masterchef Joe Bastianich, che ha già ampiamente dimostrato di avere un vasto repertorio di termini atti a descrivere scempi del genere.

venerdì 26 aprile 2013

PASTA E FAGIOLI


Ero un po' in difficoltà nello scegliere una seconda ricetta dal libro di Carlo Cracco, non me ne ispirava praticamente nessuna e quelle poche che mi piacevano erano già state assegnate. Dunque ho fatto decidere a mio marito, che senza esitazione alcuna ha puntato il dito sulla Pasta e Fagioli. Dovete sapere che questo piatto tradizionale gli piace moltissimo, sua mamma glielo preparava spesso con le tagliatelle all'uovo fatte in casa (il massimo!). Io invece lo faccio raramente perché mi dimentico sempre di mettere i fagioli a bagno per tempo. Negli annali di famiglia poi è rimasta storica quella volta che avevo servito una gustosissima pasta e fagioli senza... pasta! Semplicemente non l'ho aggiunta, dopo aver fatto cuocere i fagioli per ore...

Ogni regione italiana, quasi ogni località, ha una versione propria di questa ricetta: si può preparare con diversi tipi di fagioli (lo dice anche Cracco: con quelli di Lamon, con i cannellini, con il fagiolo giallo di Feltre, con i Risina ecc.), con diversi formati di pasta (questo Cracco non lo dice, ma a parte i ditalini che usa lui sono buonissime le tagliatelle che ho citato prima, oppure spaghetti o linguine spezzettati), con diversi tipi di grasso (pancetta, lardo, un osso di prosciutto). Insomma, le combinazioni sono infinite e si ottiene sempre una robusta e saporita minestra.

La ricetta del nostro chef non fa eccezione, il risultato è buono. Però personalmente preferisco versioni più saporite, con un bel soffritto col rosmarino e il peperoncino, anche a costo "di digerirle dopo una settimana" (Cracco dixit).

Un'ultima nota: Cracco dice che "la pasta e fagioli andrebbe sempre fatta il giorno prima (sono d'accordo) e poi lasciata riposare anche con la pasta dentro, che deve essere ben cotta" (aaaaaargh! la pasta cotta da un giorno nooooo!! neanche una mezza crucca come me ce la può fare!).


Pasta e fagioli
Ingredienti per 6-8 persone:
600 g di fagioli borlotti freschi (o 400 g di fagioli borlotti secchi)
200 g di ditalini
40 g di sedano
40 g di carote
40 g di cipolla
2 patate
1 foglia di alloro
4 litri d'acqua
1 cucchiaio di olio evo
sale grosso e pepe
Se usate i fagioli secchi metteteli il giorno prima a bagno in abbondante acqua.
Tagliate le verdure a tocchetti, mettetele in una pentola (io ne uso una in terracotta, perfetta), aggiungete i fagioli scolati e sciacquati, coprite d'acqua, unite l'alloro e il sale e fate cuocere per circa un'ora e mezza.
A cottura ultimata mettete da parte qualche mestolo di fagioli (serviranno per la guarnizione), togliete l'alloro e frullate tutto il resto. Secondo me, più frullate la minestra fine e più è buona, ma se invece vi piace più grezza, frullate meno. Rimettete dentro i fagioli interi, cuocete la pasta a parte in acqua salata tenendola al dente, poi unitela ai fagioli dove finirà la cottura e condite con sale, pepe e olio crudo. Se volete potete aggiungere (in quale momento della preparazione, chef?) prosciutto crudo, pancetta o altro (altro cosa, chef?): arricchiscono il sapore.
Non voglio annoiarvi e vi risparmio l'elenco di tutte le imprecisioni, ma sicuramente anche una semplice ricetta come questa si può, e si deve, spiegare un po' meglio.
L'unica nota che vorrei fare è sull'uso della patata: sinceramente non la metterei, dei suoi amidi non si sente davvero il bisogno.
Quindi:
Rimandato

mercoledì 24 aprile 2013

VITELLO TONNATO CON VARIANTI DI CARLO CRACCO

VITELLO TONNATO di cracco


Il vitello tonnato l'ho scelto subito, fra le ricette del libro di Cracco. L'ho scelto perché mi avrebbe permesso di sciogliere un'annosa querelle familiare, fra mia madre, che non ama cucinare ma immodestamente, e a ragione, sostiene di fare un vitello tonnato eccellente, CON la maionese, e mia zia, che ha fatto pure la cuoca di mestiere ed è stata una delle mie prime maestre di cucina, e invece sostiene proprio laq tesi di Cracco, ovvero che il vitello tonnato vero non si fa con la maionese, ma con una salsa tonnata ammorbidita con il fondo di cottura della carne. 
A sostegno della sua tesi, mia zia porta la ricetta di sua madre (anche se mia mamma dice che la ricetta della nonna è la sua e non quella della zia...) e soprattutto quella della mitica zia Rosina, che nei lontani anni '50 preparava i pranzi di nozze per tutto il circondario, che fossero signori o contadini, e che ovviamente faceva uno splendido vitello tonnato, SENZA maionese. 

La vicenda del vitello tonnato si ripresenta compulsivamente in famiglia ogni estate, rischiando di produrre scissioni familiari insanabili.

Ne ero certa, chi meglio di uno chef stellato avrebbe potuto sciogliere questo dilemma? Di qui la ragione della mia scelta.

E cosa ne è venuto fuori? Un nulla di fatto:  anche perché, pur essendo il risultato della sperimentazione di oggi buono, non sono certa di aver fatto la ricetta di Cracco: tante e tali sono le omissioni nel testo, che non so bene se sono riuscita a divinare correttamente le sue indicazioni. E alla fine, in alcune parti della ricetta, ho finito per fare di testa mia.

Ma ora lascio la parola allo chef.   


VITELLO TONNATO CON VARIANTI

Da: C. Cracco – Se vuoi fare il figo usa lo scalogno – Rizzoli


Pag. 174, la (non) ricetta.

La ricetta fa parte del II livello.

Ingredienti per 4 persone
(tra parentesi e/o in corsivo e le mie note)

480 g di carne di vitello
160 g di salsa tonnata
1 filetto di acciuga
aglio
acciuga
alloro
burro

Per guarnire
sedano
capperi
olio EVO


Preparazione e cottura: 45 minuti

... Attenzione: come tagli di carne, si possono usare il magatello (che è affusolato e rotongo, ha una bella resa ed è molto magro), oppure il carrè o lo scamone, che va lavorato un po' di più (va diviso in due e rifilato bene, per eliminare i pezzettini in più) (io ho usato il magatello, che qui in Toscana però  chiamiamo girello).

Il vitello si può cuocere facendolo bollire, come si faceva una volta (e infatti la ricetta di mia zia prevede proprio questo trattamento). Oggi molti lo fanno anche sottovuoto, perché c'è una maggior resa della carne e per la conservazione non ci sono problemi. A me (a lui, cioè Cracco) piace moltissimo cotto in maniera tradizionale: prendete il pezzo di carne, fatelo rosolare bene con aglio, alloro, acciuga e burro e lasciate cuocere. Quindi togliete dal fuoco, lasciate riposare e nel frattempo preparate la "salsa tonnata" (lezione n° 45, la troverete qui di seguito).
Come scusi?!?! Che vuol dire "prendete il pezzo di carne, farlo rosolare bene con aglio, alloro acciuga e burro e lasciate cuocere". 
a) lo vogliamo legare prima il "pezzo di carne"? potrebbe essere una buona idea, per dargli la forma e non lasciarlo spatasciato, no?
b) dove lo metto, di grazia, il "pezzo di carne"? in una padella? in una pentola? e soprattutto... In forno? Sul fornello tipo arrosto morto? 
c) quanto burro ci metto, per preparare questo benedetto arrosto? 
d) quanto aglio? uno spicchio? due? una testa? e poi... intero? sbucciato? in camicia? 
e) metto tutto insieme e faccio cuocere? se, come spesso accade, a un certo punto tende a bruciare, cosa faccio? Posso aggiungerci un po' di vino oppure no? Un mestolino di brodo per non farlo bruciare posso? 
f) a un certo punto ce lo metto un po' di sale, oppure l'acciuga risolve questo problema?
Non sono mica domande peregrine! Chi sa già cucinare (e quindi il libro di Cracco non lo compra) potrà arrangiarsi, ma un libro me lo deve dire cosa devo fare, se no continuo ad affidarmi alle ricette della zia Rosina, che magari non sarà precisa, ma delle sue ricette mi fido come dell'Ave Maria. Insomma, la ricetta di questo arrosto è, per usare un eufemismo, imprecisa.  Faceva prima a dirci: con la carne fateci un arrosto come siete abituati. Ma forse da un libro di cucina di uno chef stellato, che pure si propone come guida, ci aspetteremmo qualche indicazioni in più.
Per servire, tagliate una fetta di vitello non troppo spessa, prendete un po' di salsa - che sembrerà una composta - e distribuitela sopra.
Poi potete guarnire con le foglie di sedano e, come tocco finale, capperi fritti: mettete i capperi dissalati a bagno nell'acqua per farli spurgare, poi li asciugate e li versate in una pentola con olio bollente. Vedrete che scoppieranno e diventeranno come un fiore: bellissimi e buonissimi.
Io sti capperi li ho dissalati, asciugati e fritti, ma tutti questi fiori nel piatto non ce li avevo. Probabilmente davvero, in questo caso, la colpa era la mia. 

La guarnizione da me preferita per il vitello tonnato rimane però il sedano: lo pelate bene, togliete tutti i fili con il pelapatate e lo spelucchino, e lo tagliate a bastoncini regolari, della stessa altezza. Li fate sbianchire con acqua e olio e li servite a fianco del vitello tonnato.
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SALSA TONNATA

Da: C. Cracco – Se vuoi fare il figo usa lo scalogno – Rizzoli
Pag. 174, la (non) ricetta e pag 176, Scuola di Cucina, lezione n. 45: “La salsa tonnata”.

Inizio con lo specificarfe che l'errore più grande che si può fare quando si prepara la salsa tonnata è mettere la maionese! Non c'entra niente, il vitello tonnato non nasce così, si è trasformato nel tempo, forse per comodità, ma la vera salsa tonnata è un'altra cosa. Quindi, per preparare quella vera, dovete prima fare il *jus di carne* (lezione n° 58), ma senza aglio né profumi (perché qui si usano altri ingredienti... infatti nell'arrosto l'aglio mica ce l'ha messo... no, non ce l'ha messo!).

Fate rosolare 500 g di scarti di carne con 150 g  di burro, quando sono ben coloriti sfumare con 50 ml di vino bianco e aggiungete 100 g di tonno e 10 di acciughe. Poi bagnate con 3 l di acqua, fate sciogliere sul fuoco tutti i trutti che si sono creati sul fondo, e lasciate bollire e ridurre. Frullate il tutto e otterrete un sugo. Con un mipipimer emulsionate questa base con 200 g di tonno, 20 g di acciughe e 80 g di capperi dissalati. Infine, per legare il tutto, unite 2 tuorli d'uovo bolliti e poi passati al setaccio; fanno da addensante e rendono la salsa spessa e ricca. È questa la vera salsa tonnata tradizionale. 
Bene, mi dico io, è la volta buona che faccio il jus (che poi secondo me è parente stretto del grave inglese, ma questa dotta erudizione la lasciamo ad un altro momento). E quindi via, di filato alla lezione n° 58 per imparare tutti i trucchi del mestiere.  
Ma... la lezione n° 58 è sui savoiardi!!!! C'è chiaramente un errore di stampa, non hanno aggiornato le reference. Cerchiamo allora la lezione giusta. Sfoglia sfoglia, la lezione sul *jus di carne* non c'è proprio. Mentre la terra sembrava mancarmi sotto i piedi, e già stavo per avvicinarmi alla ben più affidabile versione della Mapi, ecco sciolto l'arcano: la lezione sul *jus di carne* è la lezione n° 11, quella sul Sugo d'arrosto.
Anche qui quindi un problema di stampa, un cambio di titolo all'ultimo momento, senza che si fossero ricontrollati i riferimenti. Io ho risolto perché lo sapevo, che il jus era parente stretto del sugo d'arrosto, ma chi è davvero alle prime armi come farà?
Poi... un jus con così tanta carne di vitello e così tanto tonno mi sembra uno spreco bell'e buono. 
Vabbè che siam cuciniere di prim'ordine, ma buttare via tutto questo ben di Dio era davvero troppo. 
Così ho semplificato. Niente tonno, gli scarti di carne sono pollo, e il grasso è olio. È venuto ottimo uguale, spero che mi perdonerete.

Penso che la soluzione ottimale per chi si perde in queste spiegazioni omertose sia rivolgersi altrove.
Mai letto il post della Mapi sul Jus lié?
Se non l'avete già fatto, correte subito a leggerlo: è chiaro, illuminante e competente!
Un altro problema sono le dosi: 480 g di carne sono veramente pochini, mentre le dosi del jus e della salsa tonnata sono molto abbondanti... quando ci sono!
Altra osservazione: in questa ricetta c'è troppo burro. In casa mia non lo sopportano, quindi l'ho sostituito con olio.
Al contrario non si precisa quanto ridurre, se mettere sale, per quanto cuocere.

PROMOSSO, CON MOLTE RISERVE

La ricetta è buona, anche se forse ho messo troppo jus nella salsa, e si sentiva leggermente troppo. 
Inoltre, per i miei gusti, nella salsa ci andrebbe qualche nota agra, che sia aceto, limone o semplicemente capperi all'aceto invece che al sale, se no tutti questi grassi rendono il tutto troppo pesante.

Contemporaneamente, per la descrizione della ricetta io lo boccerei senza remore: un libro di cucina, che per di più ha una vocazione formativa, non può non fornire le dosi e i tempi di cottura dell'arrosto, il quantitativo di salsa, non mettere i riferimenti giusti nella ricetta.

martedì 23 aprile 2013

LEZIONE 58: I SAVOIARDI!

"I savoiardi sono stati la mia prova d'esame alla scuola alberghiera (ho preso 8). "
Dopo aver letto l'introduzione alla ricetta, quando ormai avevo scelto cosa avrei preparato, ho capito che mi stavo mettendo in guai seri. 
Non solo avrei dovuto giudicare una ricetta di cui lo chef ancora si vanta per meriti scolastici, ma con lui un'intera commissione d'esame che lo ha premiato con un voto ambitissimo. 
Capite che mi sia sentita un tantino sotto pressione, anche perché io i savoiardi NON LI HO MAI FATTI! 
Quale migliore occasione per pormi nei panni di un volenteroso aspirante cuoco che compra il libro di Cracco con la speranza di imparare a cucinare in 60 lezioni? 
Nessuna precedente esperienza, nessun termine di paragone a parte il mio palato, nessun pregiudizio. 
Ho dovuto e voluto ripetere la prova due volte. 
La prima volta sono stata probabilmente troppo frettolosa. 
Ho ottenuto una montata di uova splendida, gonfia, perfetta. Poi nell'aggiungere le farine, ho sbagliato. Ho fatto tutto troppo in fretta ed ho probabilmente rovinato la montata. Dico questo perché non avevo idea di come dovesse essere il risultato e dalla prima impressione mi sembrava che tutto fosse a posto. La forma, le crepine in superficie, il colore...
Invece all'assaggio i miei savoiardi erano troppo morbidi e gommosi, senza quel delizioso effetto croccante della superficie. Delusione. 
Ho immediatamente pensato che fosse colpa mia ed avessi sbagliato qualcosa. 
Non mi sono arresa minimamente. 
Oggi ho ripetuto il tutto. Con estrema calma e attenzione. In particolare nell'aggiunta delle farine che credo sia la parte più complessa della ricetta.
Piano, piano piano...come scrive Cracco.
Ed ecco che i savoiardi una volta freddi, sono friabili, morbidi e delicati, leggeri come immaginavo dovessero essere. Peccato che una volta messi nella scatola per conservarli, si sono ammorbiditi definitivamente....vanno sicuramente consumati subito.
Veniamo alla ricetta.
"Montate 180 gr di tuorli d'uovo con 90 gr di zucchero in uno sbattitore. A parte montate anche 150 gr di albume con altri 90 gr di zucchero e setacciate 150 gr di farina 00 con 90 gr di fecola per togliere tutti i grumi e renderla setosa.
Unite i tuorli ed albumi piano piano, mescolando delicatamente (si può fare anche con le mani) quindi aggiungete la farina, sempre piano piano piano. Incorporatela bene: con un cucchiaio, partite dall'alto, andate verso il basso e tirare su.  Una volta ottenuto l'impasto, inseritelo in un sac a poche, tagliate una bocca larghina e su una teglia coperta con carta da forno create delle strisce  un po' spesse, come dei rettangolini stretti, ma leggermente alti. Spolverizzate con un po' di zucchero a velo, quindi infornate e fate cuocere a 180° per 4/6 minuti: vedrete il vostro biscotto che va un po' giù e assume l'aspetto del savoiardo classico, tutto crepato sopra per via dello zucchero. Tirate fuori dal forno, staccate e servite. Avrete preparato i migliori savoiardi della vostra vita!"
Vi prego, vi prego, leggete la ricetta.
In questa spiegazione Cracco ha raggiunto l'apoteosi del suo stile "scritto/parlato".
Quando nella quarta di copertina si legge "Avere Cracco a casa vostra non è più solo un sogno..." ci si rende conto che è davvero così di fronte ad una spiegazione come quella dei savoiardi.
Cosa significa secondo voi "create delle strisce un po' spesse come dei rettangolini stretti, ma leggermente alti" ?  Una frase così me la dice la mia mamma quando entra in tilt e comincia a farfugliare "prendi la cosa, aggiungi il cosino e l'altro cosetto e cosali bene"...Non vi sembra un approccio familiare e rassicurante?
Me la sento la voce di Cracco dietro le spalle che si raccomanda "piano piano piano...parti dall'alto, vai giù e poi tira su!"
Maremmina bella, sono tutta uno sconturbo, questa ricetta mi confonde le idee....
Senta chef, ma è sicuro che con le mani possano amalgamare bene i tuorli con gli albumi? Si? Ma poi, quanto devo montarle 'ste benedette uova?
E' sicuro che non mi si smonta tutto a usare un cucchiaio per amalgamare la farina? Una bella spatola morbida non è meglio...lei che è sempre così preciso adesso mi casca sul cucchiaio?
E poi senta Chef, ma con tutte 'ste uova mi ci vengono savoiardi per millanta persone...spetti che dimezzo la dose...si, tre teglie possono bastare per inzuppare un savoiardo nello zabaione.
Magari la prossima volta ci metto una grattatina di limone, che dice? Che tutto 'sto uovo dopo un po' viene a noia.
Sono buoni mangiati subito.
E la ricetta a parte alcuni dubbi personali, riesce purché si montino perfettamente le uova, si ottenga una montata rigogliosa e piena di arie e si usi la massima precauzione nell'aggiungere le farine. Sulla temperatura del forno è la mia più grande perplessità.
A 180° mi ci sono voluto 8 minuti pieni ma anche 10. Ogni forno come sappiamo ha le sue caratteristiche. Il mio purtroppo ha temperature sempre leggermente più basse del normale. Quindi mettete un occhio su questo tasto.
Quello su cui boccerei lo chef, è la spiegazione, assolutamente miseranda, che per chi non ha destrezza con la pasticceria, può portare al fallimento totale. In ogni caso:

Promosso (con il 6!)

Patty

lunedì 22 aprile 2013

GNOCCHI RIPIENI




Gli gnocchi ripieni di carne, sono una delle prime ricette che Carlo Cracco ha visto cucinare al ristorante, agli inizi della sua carriera. Così racconta lo chef:"...Però, visto che le palline dovevano essere farcite, e tenere all'interno la carne, ci mettevamo un sacco di farina. Alla fine era gnucco non gnocco... "! Successivamente Cracco imparò a preparare i "Cjalsòns", specialità tipica friulana, preparata con un impasto più o meno da gnocchi. A Firenze, insieme allo chef Andrea Berton, avevano rivisitato questo piatto, abbinandolo ai calamaretti, che risultò essere il più richiesto tra quelli presenti nel menù.

Io ho sempre amato gli gnocchi di patate, li rubavo senza pudore dal vassoio su cui venivano riposti da mia mamma, e me li mangiavo crudi, anzi, li mangiavamo crudi, visto che avevo ben due complici: le mie sorelle... Così, appena ho letto la ricetta nell'indice del libro, non ci ho pensato due volte e ho deciso di provarla. La ricetta fa parte del II livello.

Ingredienti per 4 persone
(tra parentesi e/o in corsivo e le mie note)

Per gli gnocchi:

500 g di patate (per me di montagna e vecchie)
110 g di farina
80 g di grana grattugiato
2 tuorli grandi o 3 se sono piccoli
sale e pepe bianco

Per il ripieno:

500 g di ricotta
3 g di polvere di curcuma oppure fresca grattugiata
sale

Preparazione e cottura: 1 ora e mezza

Attenzione: Cracco consiglia di utilizzare le patate di montagna, perché sono le migliori per la preparazione degli gnocchi. Sono molto asciutte, con pochissimo amido, ma sono difficili da trovare. Quelle che si comprano di solito, sono fresche, hanno tanto amido, e poche volte sono eccezionali. Se potete, chiedete sempre patate vecchie o patate di montagna.
Se volete premettervi un lusso, visto che il piatto è abbastanza povero, potete usare le patate ratte, che sono piccoline, molto buone e mature, ma costano il doppio di quelle normali. Sono patate di varietà francese, molto utilizzate nei ristoranti, perché sono considerate le "Rolls-Royce" delle patate. Io mi sono concessa il "lusso" della patate di montagna della Valtellina.

In una bastardella, mescolate la ricotta, la curcuma e regolate di sale e pepe. Preparate l'impasto per gli gnocchi*, tagliatene un pezzo e stendetelo con il matterello per formare un rettangolo stretto e lungo (di che spessore, chef?  io vi consiglio 3-4 mm; non è un impasto che si può stendere molto sottile, data la sua consistenza. Infarinate bene il piano su cui stenderete l'impasto o vi si attaccherà...). Con un coppapasta (diametro...? io ne ho utilizzato uno di 8 cm), ritagliate dei cerchi dentro i quali mettere il ripieno utilizzando una tasca da pasticcere (quale bocchetta? per me una liscia da 10 mm). Richiudete gli gnocchi formando delle mezzelune, e con i mignoli premete leggermente sui bordi, per sigillare. Cuocete in abbondante  acqua salata per 2 minuti, o comunque il tempo necessario perché gli gnocchi salgano a galla (altro consiglio utile per chi è alle prime armi con questo impasto. Prima di procedere a formare gli gnocchi, formate una pallina e cuocetela in acqua bollente salata. Se non si spappola, risale a galla integra, e la consistenza è morbida ma non molle, va bene. Se è dura, avete esagerato con la farina... Per prelevare gli gnocchi dopo la cottura, utilizzate uno scolagnocchi o una schiumarola, non lo scolapasta, altrimenti rischiate che si attacchino tra loro e si schiaccino )
In una padella sciogliete il burro, aggiungere gli spinaci, i pinoli tostati e l'uvetta. Aggiustate di sale e passate gli gnocchi in padella, a fuoco spento, amalgamando eventualmente con l'acqua di cottura (poca, qualche cucchiaio), se volete un sughetto più morbido, e servite. Oppure potete passare in padella gli gnocchi da soli (con una noce di burro), per poi adagiarli sul piatto dove avrete già disposto spinaci e pinoli.
Mancano completamente le dosi per il condimento!!! Quelle che ho utilizzato io sono queste: una noce di burro, circa 300 g di spinacini freschi (ben lavati e messi in padella solo con l'acqua che rimane dall'ultimo risciacquo, il burro lo aggiungo appena appassiscono), una manciata di pinoli tostati in un padellino e una manciata d'uvetta, ma regolatevi secondo il vostro gusto.

*Per la preparazione degli gnocchi è prevista una lezione a parte.
Lezione n° 27 "Gli gnocchi di patate"
Fate bollire l'acqua, mettete dentro 500 g di patate intere con la buccia, aggiungete un po' di sale e fate cuocere. Sono pronte non quando si disfano, ma quando la punta di un coltello entra bene. Pelatele ancora calde, se riuscite, eventualmente aiutatevi con un panno o un pezzo di carta. Togliete anche tutti gli occhietti neri che sono presenti sulla superficie, o ve li troverete nell'impasto. Schiacciate le patate con lo schiacciapatate, unite 110 g di farina 80 g di grana grattugiato e 3 tuorli. Impastate il tutto e cercate di non far assorbire subito tutta la farina. Le vostre mani devono essere leggere, con un movimento che più che impastare, accompagna. In questo modo l'impasto assorbirà molta meno farina di quella che, invece, richiederebbe la patata. Un segreto per non perdere (!?!) subito tutta la farina, è quello di metterne la metà a fontana, e l'altra metà tenerla da parte. Aggiungete la farina poco alla volta, così non rischiate di doverne aggiungere ancora (non bisogna lavorare troppo il composto perché, più lo lavorerete, più farina vi chiederà. Le patate vecchie assorbono meno farina di quelle nuove). Se gli gnocchi contengono troppa farina, non cuociono mai e non sono buoni. Dividete l'impasto in filoni, tagliate gli gnocchi della misura desiderata e poi passateli, uno alla volta, sul dorso (dei rebbi) di una forchetta, premendo leggermente in modo da imprimere le classiche scanalature. Potete cuocerli freschi, oppure congelarli su dei vassoi infarinati, distanziati tra loro, quindi riporli nei sacchetti appositi, scrivendoci sopra la data di congelamento.

PROMOSSO, CON RISERVA

La ricetta riesce ed è buona, ma anche stavolta, lo chef si "dimentica" dei pezzi per strada... come vedete dalle note che ho messo tra parentesi. Possono sembrare dettagli, ma per chi è alle prime armi non è così. Ad esempio, ricordo ancora una delle prime volte che mi misi ai fornelli, per preparare le chiacchiere... Nella ricetta non c'era scritto di mettere un po' di farina sul piano prima di stendere l'impasto, mi si attaccò tutto...
Mancano totalmente le dosi per il condimento !?! Ma come si fa a non metterle !?!
Nella foto del libro, gli gnocchi sono molto più gialli, che Cracco ci abbia messo più tuorli?
Altro appunto che mi sento di fare, è al titolo della ricetta, perché questi, più che gnocchi , che sono caratterizzati soprattutto dalla forma rotondeggiante, sembrano dei ravioli di patate. Probabilmente, chiamarli gnocchi, è stata una "licenza poetica" dello chef...

venerdì 19 aprile 2013

PANINI ALL'OLIO DI CARLO CRACCO


I PANINI ALL’OLIO DI CARLO CRACCO
Da: C. Cracco – Se vuoi fare il figo usa lo scalogno – Rizzoli

Pag. 166, Scuola di Cucina, lezione n. 42: “I panini all’olio e la lievitazione in casa”.

Mettete nell’impastatrice 225 g di farina 0, 8 g di sale, 20 ml di olio extravergine e 15 g di lievito di birra fresco, sciolto precedentemente in 125 ml di latte e 5 g di miele (sostituisce il malto, che è più difficile da trovare). Lavorate per almeno 10 minuti, poi fate riposare coperto in un ambiente umido. Quindi tagliate l’impasto in panini tutti uguali (sarebbe meglio aiutarsi con una bilancia), disponeteli su una placca, lasciateli lievitare ancora un po’, fate un’incisione a croce su ognuno e infornate a 220 °C per 20 minuti. Quando sono pronti, spennellateli leggermente con olio evo, così il pane non si crepa.

No, non è uno scherzo. La lezione di cucina di Carlo Cracco su come fare i panini all’olio inizia esattamente così. Dosi di sale e di lievito molto elevate rispetto al peso della farina, una spiegazione sommaria, indicazioni dei tempi spannometriche. Fate riposare coperto in un ambiente umido. Per quanto tempo, Chef? E che cosa intende per ambiente umido? Oggi piove, è sufficientemente umido per i suoi panini all’olio? E ancora: lasciateli lievitare ancora un po’. Un po’ quanto, Chef? Che poi prima mica abbiamo fatto lievitare l’impasto, ha riposato solo un po’. Suvvia Chef, questa è una lezione, può permettersi di spendere qualche parola in più…
Poi l’occhio va alla riga successiva e io tiro un sospiro di sollievo.

Ecco alcune cose che dovete sapere. Come si fa a far lievitare il pane in casa? Non tutti avete il lievitatore, quindi potete usare un armadio in casa che tenete vuoto e che non abbia profumi forti. Mettete lì l’impasto, aggiungendo anche una bacinella d’acqua se manca umidità, in modo da ricreare un ambiente umido e con temperatura di circa 28-30 °C.

Ah, ecco. Il lievitatore. In mancanza, un armadio senza profumi forti da tenere vuoto e riservare esclusivamente alla lievitazione, e una bacinella d’acqua che crei umidità e calore. Scusi Chef, non vorrei sembrarle rompina, ma io non sono una donna ricca. La mia casa non è così grande e soprattutto gli spazi mi mancano. Non ho un armadio intero da lasciare vuoto e senza odori, per farci lievitare il pane. E se anche lo avessi, mi spiega come faccio nel cuore dell’inverno a far raggiungere all’armadio temperature di 28-30 °C, quando in casa ce ne sono a malapena 20? Però Chef, forse ho in mente la soluzione. Io ho un forno. Cosa dice Chef, il forno spento può andare bene? Se mi dice di sì vado a rimettere a posto i vestiti nell’armadio, perché sa Chef, io ci tenevo a fare bene i suoi panini ed ero corsa a svuotarlo… Che poi tra l’altro il mio forno è figo, non perché sia fatto con bucce di scalogno riciclate e compresse, ma perché ha la temperatura minima di 30 °C e la funzione hydro, che crea umidità. Allora faccio così, eh Chef? Metto nel forno a 30 °C con la funzione hydro, OK?
Carlo Cracco non mi risponde. Dovrebbe essere qui, così promette il libro, “avere a casa vostra Carlo Cracco  […] non è più solo un sogno: vi racconterà […] che un calorifero può essere un ottimo strumento di cottura”. In questa lezione non si parla di caloriferi, ma di armadi. Bah. Prendo il silenzio di Cracco come un assenso e vado avanti nella lettura.

L’importante è che non ci voglia troppo: se dopo 40 minuti non è lievitato, vuol dire che c’è qualche problema. Ricordate inoltre di lavorare sempre in un ambiente caldo, così la lievitazione riparte subito, e mai in un ambiente freddo, che rallenta i processi.

Aaaah, finalmente i tempi di lievitazione: “ancora un po’ ” si traduce in “40 minuti, non uno di più”. E se a casa mia ci sono 20 gradi non posso fare il pane di Cracco, a meno di non lavorare dentro al mio forno figo (acceso), che però non ha abbastanza spazio. Vabbè, andiamo avanti.

E per cuocere il pane? La temperatura del forno deve essere di 200 °C, ma poiché quelli di casa sono un po’ meno potenti e, quando li aprite per infornare e poi per controllare, il calore si disperde, calcolate 10 °C in più. Il tempo lo dovete capire: quando la farina è bianca e non bruciata, quando il pane è bello colorato, quando lo prendete in mano ed è bello leggero, vuol dire che è cotto.

Fine della lezione n. 42 a pag. 166.
Giuro.
La lezione è tutta qui, la ricetta anche.

Per scoprire i tempi di riposo dò un’occhiata alla spiegazione della ricetta iniziata alla pagina prima e interrotta dalla lezione sopra riportata. A pag. 167 leggo che per lui riposo e lievitazione sono la stessa cosa, e durano 20 minuti. Mettete l’impasto in una ciotola, coprite con un panno umido e lasciatelo *lievitare* (lezione n. 42) così per 20 minuti circa. Passato il tempo di riposo…”  
Avete letto bene: 20 minuti per la prima lievitazione (o riposo che dir si voglia). E allora che faccio con ‘sti panini? Semplice, seguo le sue indicazioni alla lettera (tranne che per la faccenda dell’armadio). 
Impasto, faccio riposare per 20 minuti coperto da un panno umido nel forno a 30 °C, poi formo i panini. Li faccio lievitare ancora un po’ nel forno a 30 °C e decido che ancora un po’ corrisponde a 40 minuti, il tempo massimo che Cracco concede alle lievitazioni casalinghe. Naturalmente l’impasto è ben lungi dall’essere perfettamente lievitato e pronto per la cottura: nonostante la quantità esagerata di lievito di birra, abbiamo una quantità altrettanto esagerata di sale che ne contrasta l’azione (lei lo sa, Chef, che il sale è un conservante e che la sua azione è per l’appunto quella di rallentare i processi fermentativi?). Dopo 30 minuti tiro fuori i panini dal forno spento e lo accendo a 210 °C, così come Cracco, il silente Chef che in questo momento si trova nella mia cucina, ha detto. In 10 minuti il mio forno figo ha raggiunto la temperatura, non ho sgarrato i tempi di lievitazione neppure di un minuto e sono molto fiera di me. Ho un ultimo momento di perplessità al momento di fare i tagli a croce sui panini: di solito i tagli si fanno prima della lievitazione, non dopo. Percepisco elettricità nell’aria attorno a me e mi affretto a obbedire: prendo uno spilucchino con lama liscia e affilata e incido i panini, poi li inforno.

In cottura si sono gonfiati molto leggermente, direi quasi impercettibilmente. I tagli a croce non si sono aperti, perché la lievitazione era solo a metà. Faccio raffreddare i miei panini per un paio d'ore su una gratella prima di sottoporli a ulteriori esami.
Avete presente come fa Cracco a Masterchef, quando gli allievi gli presentano il piatto? Lo prende e lo annusa. Ecco, ho fatto così anch'io con i suoi panini. L’odore di lievito di birra è fortissimo. Lo era già durante l’impasto e in fase di cottura, ma dopo la cottura è la nota predominante. Spezzo in due un panino. L’alveolatura è fine, disomogenea; la mollica è pesante e "gnucca" (un mappazzone, insomma).


Prima di passare alla prova assaggio ricordo a me stessa la funzione del pane in un pasto. Pane e companatico si usa dire, indicando così che il pane accompagna le pietanze e serve ad esaltarne il gusto. Talvolta può avere un sapore marcato, per le pietanze che lo esigono (il pane al cumino ad esempio è perfetto con i formaggi dal gusto forte), talaltra è addirittura senza sale per lasciare spazio ai gustosissimi intingoli che accompagna, come il pane toscano. I panini all’olio di Cracco sono salatissimi, quindi immagino che lo Chef li abbia pensati come accompagnamento a delle anonime zucchine lesse, di quelle che si mangiano quando si ha mal di pancia. Ma anche delle zucchine lesse sono a mio parere migliori di un panino salatissimo e dove il gusto del mio ottimo extravergine – che faccio arrivare apposta dalla Sicilia – è soffocato completamente dal preponderante sapore del lievito di birra.
Questi panini sono pessimi. Li ho mangiati tutti fino all’ultimo perché detesto buttare via il cibo, ma erano davvero terribili e mai li avrei offerti ai miei ospiti, durante una cena; se avessi detto che era una ricetta di Cracco poi, non mi avrebbe creduto nessuno. Ci credo a malapena io.

Perché vede Chef, io ho in casa diversi libri di gente che ha fatto del pane e dei lievitati il suo mestiere: Margherita e Valeria Simili, Piergiorgio Giorilli, Gabriele Bonci, Jeffrey Hamelman e Raymond Calvel (sì, proprio lui, l’inventore della lievitazione con autolisi). E tutte queste persone, caro Chef, mi hanno insegnato tramite i loro libri che negli impasti diretti vi sono delle proporzioni ben precise tra il peso della farina e gli altri ingredienti. Il lievito di birra deve essere tra l’1,8 e il 2,5%, il sale deve attestarsi intorno al 2% ma può arrivare un po’ più su nel caso delle focacce... 
Sa cosa faccio, Chef? Rifaccio i panini all’olio con le sue dosi di farina, ma le proporzioni tra gli altri ingredienti di Calvel. Sono proprio curiosa di vedere la differenza. Pure il bilancino di precisione mi sono procurata, che pesa fino al decimo di grammo.

Panini all’olio: le proporzioni tra gli ingredienti (riferimento: peso della farina) 

Raymond Calvel (Le goût du pain)      Carlo Cracco (Se vuoi fare il figo usa lo scalogno)

Farina               225   g             -                          225 g               -
Sale                     4,5 g            2 %                             8 g            3,6%
Lievito                 5,6 g           2,5%                       15 g            6,7%
Olio                   27    g          12 %                           20 g            8,8%
Acqua/latte      108    g        48   %                   125 g           55,5%
Estr. malto     0,135   g     0,6    %*                      5 g            2,2%*

Mettere gli ingredienti nella ciotola dell’impastatrice, avviarla alla velocità 1 e farla andare per 3 minuti. Passare alla velocità 2 per altri 6 minuti. Al termine dell’impasto, la pasta dovrà avere una temperatura di 25 °C**.
Coprire con un canovaccio umido e far lievitare in luogo tiepido e al riparo da correnti d’aria per 50 minuti, poi riprendere l’impasto, lavorarlo brevemente e suddividerlo. Far riposare 16 minuti, poi fare le preforme. Coprire e far lievitare per 75 minuti.
Preriscaldare il forno a 240 °C e cuocere per 35 minuti.

*l’estratto è più concentrato del malto: ne ho usati 3 g, pari all’1,4%.

**la temperatura della pasta è influenzata dalla temperatura ambiente e dalla frizione operata durante l’impasto. La si regola mediante la temperatura dell’acqua.

In questa seconda ricetta ho seguito il procedimento di Calvel; i tempi della seconda lievitazione si sono rivelati eccessivi, i panini stavano per passare di lievitazione. 

Due parole sull’idratazione dell’impasto: questo varia dal 50 al 75%, secondo il tipo di pane che si vuole fare. Più l’impasto è idratato, più il pane risulta morbido. Tutti i liquidi concorrono all’idratazione: non solo acqua o latte, ma anche olio e uova, se presenti. Di regola le quantità di liquidi indicate nelle ricette sono indicative: in ambiente umido la farina infatti è più umida e ne assorbe di meno, in ambiente secco ne richiede di più. Nel caso delle condizioni microclimatiche della mia cucina, ho aggiunto 25 ml di acqua all’impasto di Calvel. Il resto del liquido era costituito da latte intero, come indicato nella ricetta di Cracco.

Mi soffermo anche sulla differenza tra riposo e lievitazione. Il riposo serve per permettere al glutine, attivato dalla lavorazione, di distendersi e allentare la presa. Dopo il riposo è quindi possibile lavorare i pezzi d'impasto dando loro la forma desiderata, senza strappare le maglie di glutine, cosa che comprometterebbe la successiva lievitazione.

Ho praticato i tagli a croce sui panini prima della seconda lievitazione.

Temperature e tempi di cottura di Calvel non andavano bene per le minuscole pezzature dei miei panini: ho adottato quelli indicati da Cracco, che si sono rivelati perfetti.


Ed ecco il risultato che ho ottenuto con le proporzioni di Calvel, a parità di quantità di farina: i panini si sono gonfiati molto di più, però a causa dell'eccessiva lievitazione avevano già cominciato a sgonfiarsi; sono cresciuti più in larghezza che in altezza. A occhio si direbbe che con questi ho usato più farina, ma non è affatto così.

Annuso i panini e la deliziosa fragranza del pane mi invade le nari. Nessun odore predominante, solo profumo di pane. L'alveolatura della mollica è fine (ma più evidente di quella dei panini di Cracco) e omogenea. La mollica è soffice. All'assaggio il mio pane sa di... pane. Un ottimo panino soffice e fragrante, senza nessuna nota prevalente, perfetto per accompagnare praticamente qualsiasi piatto.


Verdetto finale sulla ricetta di Cracco: BOCCIATO.
Sono sbagliate le dosi di lievito e sale, sono sbagliati i tempi di lievitazione ed è sbagliata l’osservazione secondo cui se un pane non lievita in 40 minuti vuol dire che qualcosa non va. Sono sbagliate le modalità di lievitazione (in un armadio, con dentro una bacinella di acqua), è sbagliato il momento di fare i tagli sul pane, si fa confusione tra riposo e lievitazione. 
Questa era una lezione sul pane, evidenziata in un box azzurro - colore che contraddistingue le ricette di II livello. E' a mio avviso un'ottima lezione a contrario: se volete ottenere dei buoni panini all'olio, non seguite questa ricetta.

Anche le indicazioni su come capire se il pane è cotto sono approssimative e imprecise: il pane è cotto quando, bussando con le nocche sul fondo, suona vuoto. Se suona pieno deve cuocere ancora. E per capire se un impasto è lievitato, affondateci un dito per 2-3 cm: la fossetta deve rimanere inalterata. Se tende a sanarsi vuol dire che la lievitazione è ancora in corso, se l’impasto si sgonfia vuol dire che si è ecceduto con i tempi di lievitazione e occorre riprenderlo.

Chef, avrà anche preso 8 all’esame sui savoiardi, ma quanto ha preso a quello sul pane?