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Prendendo spunto dal classico di questo trimestre, le Ricette Regionali Italiane di Anna Gosetti Della Salda e dall'inevitabile e preannunciata constatazione delle numerose divergenze, in certi casi addirittura eclatanti, fra le versioni scelte dall'autrice e quelle che circolano nelle nostre case, ha forse un senso placar sul nascere la discussione, recuperando quanto gli storici del cibo vanno dicendo da qualche anno a questa parte in materia: e cioè che quella tradizione a cui si fa costantemente appello per rivendicare la correttezza di una ricetta, piuttosto che di un'altra, a ben guardare non esiste.
O meglio: esiste, ma è un concetto assolutamente recente, nato in Italia sul finire del Settecento e sviluppatosi poi nel corso dell'Ottocento, con il fiorire delle Cuciniere e dei ricettari di casa. Prima, la nostra cucina era tutta internazionale.
Per quanto possa sembrar strano, per periodi in cui lo spazio era percepito come pieno di insidie e i mezzi di trasporto erano lenti e mettersi in viaggio era un'impresa irta di disagi e di pericoli, la cucina antica, fino all'età del Rinascimento, fu sempre concepita nelle forme dell'universalità e non della territorialità.
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Pur con evidenti differenze, legate al radicale mutamento politico, economico, sociale e culturare delle due grandi epoche successive, la cucina del Medioevo e del Rinascimento mantiene la sua vocazione internazionale prima e nazionale poi: sono gli anni in cui la categoria dominante il pensiero è quella dell'universalità e questa, mutatis mutandis, sfonda anche le porte della cucina.
A scanso di equivoci: non è che non si usassero prodotti del territorio, anzi: per ovvie ragioni, se ne faceva un uso molto più ampio di quello odierno. Semplicemente, non si pensava alle ricette come legate ad un luogo, tutto qui.
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Non solo: parlare di "territorio", applicando il concetto a questo periodo, significa fare un'operazione sommamente antistorica: Medioevo e Rinascimento sono epoche in cui le diversità sociali vanno scandite in mille modi e il cibo è proprio uno di questi: i cibi di ricchi non sono quelli dei poveri ed esistono protocolli accuratissimi che stabiliscono le quantità da servire ad una tavola, piuttosto che ad un'altra, anche nello stesso banchetto.
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Il "territorio" invece, è un concetto democratico: appartiene a tutti quelli che vi abitano, dal nobile al contadino, dal principe al povero- e questo, per quegli anni, sarebbe stato inaccettabile.
Quand'è, allora, che si inizia a parlare di cucina di territorio - e soprattutto perchè ciò accade? La risposta, come sempre, è scritta nella Storia, in un Seicento che ci vede umiliati dal dominio spagnolo e che assiste impalcabile al definitivo sorpasso della Francia nel ruolo egemone di maestra di cibo in Europa. I Francesi ci sorpassano- e lo fanno da Francesi, dileggiandoci, sbeffeggiandoci, accusandoci di tutti i mali del mondo. I cuochi della corte di Caterina de'Medici, che tanta svolta diedero alla gastronomia d'Oltralpe, vengono definiti "torma di Italiani corrotti" e i nostri maestri di casa che ancora parlano con passione di ingredienti, tecniche e ricette vengono messi alla berlina da Montaigne, "quasi parlassero di teologia".
Insomma, ce la passiamo male, in tutti i sensi. Ed è in questo momento, allora, che non potendo più sostenere alcun confronto internazionale, cominciamo a guardarci attorno: e scopriamo che a cambiar prospettiva, continuando cioè ad utilizzare quello che abbiamo, ma cominciando a valorizzarlo come patrimonio di un popolo, ci si guadagna.
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La cucina regionale, quindi, nasce da qui, in un periodo relativamente vicino a noi, e senza il supporto di fonti scritte: i ricettari c'erano, ma erano tutti riservati ai cuochi dei ricchi, professionisti esperti che non avevano bisogno né di dosi né di spiegazioni. Il resto, era tutto oralità e, in quanto tale perduta.
Fu così che i primi compilatori delle cuciniere argomentarono, fecero supposizioni, inventarono: e lo fecero non più per pochi, ma per molti, indirizzandosi cioè a quella borghesia che è l'indiscussa protagonista del XIX secolo, vale a dire per una cucina che non si valeva più, se non in rari casi, di cuochi professionisti, ma di cuoche più alla mano, a cui spesso si affiancava la padrona di casa, attenta ai conti e agli sprechi.
Nacque quindi una cucina tutta diversa, ma priva di quella autorevolezza che può derivare dall'antichità: i nostri studi si fermano all'altro ieri e oltre non si può andare.
Di conseguenza, le differenze fra ricetta e ricetta, fra un procedimento e l'altro sono non solo fisiologiche, ma conferma viva della nostra storia, e voler rivendicare l'originalità di una versione rispetto ad un'altra, vale fino ad un certo punto: logico, gli strafalcioni non si ammettono- e presentare come "di tradizione" una ricetta che fa uso di ingredienti atipici per quel territorio è un'operazione scorretta, che trasuda ignoranza o malafede. Ma una volta che il dibattito si restinge alla presenza o meno di un ingrediente di quel territorio, ecco che la questione diventa equivalente alla diatriba sul sesso degli angeli, senza soluzione.
O meglio, una c'è- ed è quella di assaggiare e lasciare che il palato sia il giudice ultimo del nostro piatto...
Uuuhhh, quanto mi piace questo articolo. Sto facendo una ricerca sulla ricetta delle frittelle di S. Giuseppe che faceva mia nonna e proprio a questa idea stavo giungendo. Ho fatto una ricerca sulle ricette dei territori limitrofi ed è come se mia nonna avesse incontrato una ricetta-compendio di altre vicine. Bah
RispondiElimina....e mi fanno ridere quelli che "si fa così perchè questa è la ricetta originale"...
RispondiEliminasono tutte ricette originali, uniche e varie.
a me comunque il "famolo strano" dei romani mi piace assai come idea, e mica per niente abbiamo conquistato il mondo!
un abbraccio
Sandra
ho letto tutto d'un fiato... non lo sapevo questo, mooooolto interessante!
RispondiEliminaMa quanto è bello questo articolo, Ale?
RispondiEliminaHo imparato un sacco di cose, e ripensando a certe diatribe sulla liceità o meno di dare un determinato nome a una ricetta mi viene solo da ridere. Ricordo ancora un vivo dibattito, qualche anno fa in un forum, sulla Parmigiana di Melanzane: qualcuno addirittura osò dire a una poveraccia che aveva disgraziatamente condiviso la sua versione, che guai a lei se avesse osato chiamarla parmigiana, "quasi parlassero di teologia", come direbbe Montaigne.
Grazie davvero per questo articolo che è un inno supremo alla tolleranza! :-)
bello, utile, e da gridare a gran voce!
RispondiEliminache splendido articolo, Ale, l'ho letto con grande interesse. Mi ha fatto pensare a due cose:
RispondiEliminaPrimo, se capisco bene, tutte le storie per salvare il pianeta (e le balene) utilizzando solo cibo a kilometro zero, con l'insalata coltivata sul balcone e le uova della gallina allevata a terra personalmente in salotto....sono una moda recente, malgrado le insistenze sui bei tempi andati, la saggezza dei contadini--pardon coltivatori---e cosi' via. I Romani, ma non solo loro, importavano ed esportavano generi alimentari da tutto il mondo conosciuto, e a ben pensarci Colombo arrivo' in America alla ricerca di spezie--quindi per una questione di cucina, almeno in parte.
Secondo, che questa idea della territorialita', oggi cosi' imposta pure a chi ne farebbe anche a meno, sotto pena di essere tacciati come ignoranti che vanno (ri)educati all'ortodossia della "tradizione", del cibo di "nicchia" , col marchio che garantisce il territorio, e costa tanto da essere in ultima analisi fruibile solo da pochi, sia un'idea "borghese"... delicious irony, indeed :).
---Ann
rispondo ad anne e con lei a tutti:
Eliminae parto da un esempio. ai tempi della cività della fame, il pane si divideva in due categorie: il pane nero, per i poveri e quello bianco, per i ricchi. Trattandosi di pane, il consumo era quotidiano e fu facile quindi trasformarlo in una sorta di simbolo sociale: ricordo da bambina, quando leggevo Heidi, che non riuscivo a capire perché la nonna di Peter fosse così felice nel ricevere in dono i panini bianchi della città. L'ho capito molti anni dopo, studiando le abitudini alimentari dei vari popoli. Col passaggio dalla civiltà della fame a quella dell'abbondanza, tutti sono stati meglio e in molti hanno potuto godere di quelli che, un tempo, erano privilegi per pochi. In breve, subentrò la noia, quella stessa che spinse i ricchi a disdegnare il pane bianco, prodotto con farine setacciate e lavorate con cura, per scegliere quello nero, la cui materia prima era meno pregiata e più grezza: il risultato lo abbiamo sotto i nostri occhi, tutti i giorni: il pane nero costa di più. Sensibilmente di più. E non ha senso, a pensarci bene: ma ormai è così: siamo talmente soggiogati da questa moda della tradizione e della territorialità da aver perso di vista la bussola del buon senso.
sia chiaro: la territorialità in sè è un valore ed è doveroso proteggerla e valorizzarla. Ma è un concetto moderno che, soprattutto, non esclude il suo contrario (l'internazionalità) e meno che mai implica un giudizio di merito su chi fa scelte diverse. Credo che un buon esempio possa essere fornito dalla cucina genovese: noi abbiamo un territorio povero e le risorse del mare le abbiamo intese prevalentemente in senso commerciale: abbiamo una manciata di ricette a base di pesce, per lo più povero e di fondo, mentre in compenso ci siamo arricchiti come nababbi, nel Medioevo, nel rinascimento e soprattutto nel Seicento, sfruttando il mare per i nostri traffici. Bene: la nostra cucina è povera, nella misura in cui è di territorio, e ricca, ricchissma, nella misura in cui ha accolto e preservato le tradizioni culinarie che son venute dal mare: siamo considerati gli inventori dei canditi, abbiamo mantenuto inalterata l'arte della confetteria, degli sciroppi, della conservazione dei fiori. E- soprattutto- abbiamo ache sviluppato una cultura dell'accoglienza che non è seconda a nessun altro popolo,in un intreccio che, alla fine, ci ha reso ricchi non solo in denaro, ma anche in spirito. E' questa la sola tradizione che esiste- la sola che salvo.
Alessandra sai quanto mi piace tutto ció!
RispondiEliminaGrazie del post, ora sarebbe una tesina da minilaurea, Ai nostri tempi l'incipit della tesi.
RispondiEliminaHo vissuto e sto vivendo due cucine della tradizione, la bolognese e la fiorentina. Quando il mio primo marito davanti alle lasagne della mia mamma, disse che primi buoni come la ribollita non ce ne sono. Mio padre rispose con aria sprezzante "roba da poveretti" e comunque nelle cucine borghesi non c'era la padrona di casa ma la cuoca che veniva dalla campagna e che trovava ingredienti che non avrebbe mai potuto comprare se avesse cucinato per la sua famiglia. Il mio territorio è ricco, fertile, facile da lavorare, cresce di tutto e il lavoro c'è stato sempre, o in campagna o in fabbrica. Mia zia lavorava alla Ducati nel 1936. I mezzadri stavano abbastanza bene e anche i braccianti non se la passavano male. Ecco allora che è nata una cucina "grassa" : burro, strutto, prosciutti e mortadelle, farina a volontà e uova come se piovesse. Olio solo di semi e poco. L'ulivo più vicino senza passare l'appennino era a Brisighella o sul lago di Garda-
Firenze è sempre stata una città di mercanti, la terra è dura da lavorare (tutta in collina) Gli appezzamenti erano piccoli e i contadini e mezzadri se la passavano peggio. Da qui una cucina povera.
Credo che tradizione e territorialità siano due cose: da una parte il gusto dei sapori di casa, il ragù della nonna e dall'altra business. Non esiste che il radicchio del contadino al mercato costi 4 volte quello bio del supermercato. Il contadino (giustamente) si è fatto furbo.
silvia m.
anche questo tuo intervento potrebbe far parte di una tesi di laurea. Ai nostri tempi, una nota lunga; adesso, un capitolo :-)
EliminaSto leggendo tanto sulla cucina antica, partendo dal Medioevo (ma qualcosa mi dice che farò qualche incursione anche più indietro), ed è bello leggere qui tante cose che spesso fatichiamo a ricordare.
RispondiEliminaLa tradizione non esiste, eppure esiste nel momento in cui possiamo assaggiarla..
bisognerà che prima o poi mi decida achiederti una bibliografia essenziale sull'argomento. anzi, facciamolo subito: e se ti chiedessi una bibliografia essenziale sulla cucina medievale? ;-)
EliminaBasta pensare che il territorio in un paese come Terrasini si divide nettamente in due in cucina, da una parte la cucina di terra e dall'altra quella di mare. E vogliamo parlare della caponata? Di contro, così come il biancomangiare, ci sono dei cibi che hanno lo stesso nome e chilometri di distanza e ingredienti diversissimi fra loro. Ricordo ancora quando all'università facemmo una ricerca per i PUPI CU L'OVA, e la mappa geografica che ne uscì fuori…
RispondiEliminaPost davvero interessante!
Intanto che aspetto la bibliografia, ti ringrazio per questo post...
RispondiEliminaComplimenti!! un bellissimo post, da incorniciare!!!
RispondiEliminaDavvero un bel post Alessandra! E' vero, il concetto di tradizione è una fisima dei tempi moderni... e comunque ci sono tante cose che non quadrano. Basti pensare che noi oggi, consideriamo tradizione un piatto come la pasta al forno che, in realtà, è una preparazione recente, legata al benessere e all'uso abbondante della carne. Magari le lasagne al forno possono essere tradizionali in Emilia, ma qui in Puglia non c'entrano niente
RispondiEliminada noi vale la stessa cosa per il pesto- che è una salsa ottocentesca- e per la focaccia: e qui si aprirebbe il discorso sul "buon olio di una volta", che in realtà tanto buono non era... prossime volte, dai :-)
Eliminagià: non lo cambierei per niente al mondo con l'olio extravergine di oggi ;)
EliminaQuelle sulle tradizioni e' un argomento che non ha confini e credo che non si possa internazionalizzare, anche perche' il termine tradizioni e' abbastanza chiaro.
RispondiEliminaTradizioni = trasmissione nel tempo, all'interno di un gruppo umano, di usanze o altro.Ecco il termine paese che vai tradizioni che trovi .Anche se i piatti o altro e uguale ma con pochissime varianti, tutto e legato ai prodotti che il territorio offriva.
Ci sono ricette che secondo il mio parere non possono essere cambiate, vedi il cannolo siciliano, la genovese di Erice, la sfogliatella, la pastiera la amatriciana .....ecc.
Naturalmente niente vieta di trasformare.
Pasquale, tu sei già oltre :-)
RispondiEliminaio mi limitavo solo a dire che il concetto di tradizione, applicato alle ricette, è un concetto "moderno" (cioè ottocentesco): questo non intacca il fatto della trasmissione nel tempo delle ricette di territorio: quelle, ci son sempre state e sempre ci saranno- ed ogni casa avrà le sue varianti. Se ti capiterà di passare per Genova, ti faccio fare una degustazione comparata di pesto, fra quello che fa mia mamma, quello che fa mmia suocera e quello che faccio io: son tre pesti diversi: mia mamma ci mette pochi pinoli, mia suocera non ci mette il pecorino, io aggiungo un pezzettino di burro. . Ma siccome han tutti basilico, aglio, olio e parmigiano, sono tutti e tre "pesti" di tradizione. Ovvio che se mi presenti un pesto di rucola e me lo chiami alla "genovese", penso che di genovese abbia molto poco: ma quando si mantengono gli ingredienti del territorio e le tecniche assimilate dalle nostre nonne e dalle nostre mamme, rispetti il territorio e rispetti la tradizione: anche se ci son delle differenze...
Concordo Alessandra con il tuo pensiero moderno -ottocentesco sulla tradizione.Credo che dei tre pesti quello della tua mamma dovrebbe piacermi di piu'.Quello con il burro ad esempio non l'ho mai mangiato, potrebbe essere l'occasione e la novità se passo per Genova :-)
Eliminaun post culturalmente interessante, molto!
RispondiEliminaMolto interessante, sarebbe bello approfondire l'argomento.
RispondiEliminaUn bellissimo articolo, utile e interessante. Fa riflettere molto.
RispondiEliminaGrazie Alessandra. Lo leggo soltanto adesso :)
Tiziana