Una delle tante pillole di saggezza di mia madre che ho capito a distanza di anni è una frase che le scappava di bocca ogni volta che si ritrovava a dover mangiare fettine di vitello buone per risuolare scarpe, pastasciutte al burro slegate e senza sapore, uova al tegamino che avrebbero fatto la loro porca figura nel menu di stanotte, da tanto l'occhio di bue che ricordavano era drammaticamente reale, agli occhi e al palato: "meno sanno cucinare e più si ostinano a credere che questi siano piatti semplici".
Ai tempi, capivo poco: io e mia sorella siamo cresciute con una cucina fatta di pochi ingredienti e di sprint in velocità, capace di appagarci come nessuna altra mai. "Che ci vorrà, pensavo, mentre sentivo il burro sfrigolare in padella e il rumore netto, da gesto sicuro, del guscio che si rompe contro il bordo del piatto, preludio a una delle esperienze culinarie più piene e più pefette che si ripete, da allora, ad ogni uovo fritto che mi trovo davanti. Le risposte, ai tempi, me le portava il vento che proveniva dalle case del vicinato e che sapevano di olio cattivo (ah, l'olio Cuore degli anni Settanta!), di paste scotte, di pratiche in cui il dovere aveva annientato ogni forma di piacere, con tutto quello che ne conseguiva, amarcord di vecchie amiche compresi- "che la pasta al burro di tua mamma, Ale, me la ricordo ancora adesso".
Crescendo, invece, le risposte sono venute dal basso, dai miei primi tentativi in cucina, quando il "che ci vorrà?" assumeva le proporzioni angoscianti di un interrogativo che non trovava risposta nella lista degli ingredienti o nel metodo di preparazione. "Pasta e burro, mannaggia, pasta e burro", continuavo a ripetere affranta e arrabbiata davanti a maccheroni duri e asciutti che galleggiavano in uno strato di grasso giallino, per non parlar dell'uovo in padella e, peggio ancora, dell'odiata fettina. Per consolarmi, accendevo il forno e creavo piatti nuovi, in bilico fra i voli della fantasia e le esigenze più prosaiche del frigo. E quelli- miracolo- riuscivano sempre: i sapori si fondevano in risultati armoniosi, in bocconi che scrocchiavano sotto ai denti per poi schiudersi in succose fragranze, in sollecitazioni dei sensi che iniziavano dalla vista e finivano con la scarpetta nella teglia, a litigarci l'ultima briciola di piatti che, a ben guardare, erano la vera risposta all'interrogativo di cui sopra.
La stessa che Diana Henry declina nelle decine di ricette di questa sua ultima fatica, pietre miliari sulla strada di una cucina adatta non solo a chi non ha tempo, ma anche a chi non è capace: perché, contrariamente a quanto si creda, non è il fornello, il vero alleato degli inesperti, ma il forno. Quel forno a cui si guarda con timore, tanto da essere ripudiato dai millennials di tutto il mondo, gli stessi che spendono l'iradiddio per equipaggiarsi per il sous vide o per gli estrattori- quando in realtà basterebbe un forno, una teglia e la formula magica che si nasconde dietro il sottotitolo di questo libro, quei "piatti semplici che si fanno da soli", al tempo stesso il manifesto dell'autrice e una dichiarazione d'amore che trabocca di gratitudine verso le infinite ricchezze che ogni ingrediente ci regala, nella misura in cui lo si conosce e lo si rispetta.
Questo è l'altro poderoso pilastro della credibilità della nostra autrice, quello che eleva la semplicità della sua cucina dal piano della noia a quello dell'esperienza indimenticabile: questa capacità di inscenare uno spettacolo, ogni volta, assegnando parti diverse agli ingredienti, secondo un copione che voglia come protagonista ora questo, ora quello. Se uno stupido piatto di patate al forno diventa il responsabile di una delle cene più memorabili di quest'ultimo anno, se un pollo alza la cresta e arriva a reclamare per sé scenari più nobili di una mensa ospedaliera, se abbinamenti consueti ritrovano accenti nuovi, come abiti smessi restituiti a nuova vita da un accessorio che li rende unici, questo è grazie alla sapienza profonda e arguta di questa straordinaria autrice, l'unica allo Starbooks a non avere mai sbagliato un colpo.
La ciliegina sulla torta è la sua prosa: dopo Nigella, è la Henry l'autrice di razza del pur competitivo panorama dell'editoria gastronomica anglosassone. Perdersi nelle sue descrizioni è un attimo, tanto evocativa è la sua penna, tanto scorrevole il suo stile. Se mai c'è una ragione per cui anche From the Oven to the Table debba finire nella vostra libreria è anche per questo rarissimo equilibrio fra libro da leggere e manuale da usare, con una doppia soddisfazione, su entrambi i fronti.
E scusateci se è poco.
Al prossimo libro, fra due settimane!
Alessandra
Mia madre diceva sempre che il piatto più difficile del mondo sono gli spaghetti al pomodoro. Detto questo, il libro ha come dici tu tante ricette semplici, si. Ma veramente ben fatte ;)
RispondiEliminaBellissima recensione, veramente un grande libro, e l'ennesima tentazione!!😉
RispondiEliminaChe recensione meravigliosa, lo comprerò
RispondiEliminaCon Diana Henry, ogni pietanza quotidiana diventa grandiosa.
RispondiEliminaFra i tantissimi autori trattati qui allo Starbooks, la Henry resta una delle mie più amate, non solo per la sua cucina ma per, come giustamente hai fatto notare tu, per la sua capacità di scrittura così evocativa da sentire il profumo dei suoi piatti ancora prima che siano pronti. E' una grandissima autrice e tu una splendida, irresistibile penna.
RispondiEliminaMetto la signora Henry nella wish list hahaha
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