Avevo quattordici anni quando usci' Il Nome della Rosa.
Non ero riuscita a mettere le mani sul libro di mia mamma, quello con la copertina rigida, rossa, con le spirali, perche' era tutto un passarselo fra le amiche e mi ero dovuta arrangiare con l'edizione in brossura, profilata di marrone, con l'aggiunta di un libricino "Postille a Il Nome della Rosa" con cui poi avrei fatto la figa, negli anni dell'Universita'. Ma in quegli anni, da lettrice accanita ma ancora acerba, l'unica percezione che avevo, mentre mi appassionavo alla storia, mi annoiavo sulle descrizioni, saltavo interi paragrafi e ne rileggevo con avidita' altri, era che quello che avevo in mano era qualcosa di epocale, forse anche di epico, qualcosa che prima non c'era, quanto meno non cosi, non in quella forma, capace di sdoganare una cultura fino ad allora pensata come per pochi e quindi guardata a distanza e forse anche temuta, per renderla fonte di un'ispirazione duttile, coinvolgente, divertente. Manoscritti secolari, messaggi da iniziati, anfratti della storia diventavano ora cose vive, riattualizzate, resuscitate, mi verrebbe quasi da dire, per strapparle a un mondo di morti e reinserirle nel flusso della vita.
Niente sarebbe stato piu' come prima, dopo Il Nome della Rosa e anche se non potevo prevederlo, a 14 anni, l'ho imparato sul campo, coi romanzi usciti negli anni successivi, da I Pilastri della terra a Il Codice Da Vinci, tanto per citare i due titoli piu' emblematici di un filone che, a distanza di quasi 40 anni, non ha ancora mostrato la corda.
Le stesse sensazioni, seppure formulate in maniera diversa, le ho provate anni dopo, sfogliando Jerusalem di Yotam Ottolenghi: al di la' delle singole ricette, al di la' di quelle che scartavo e di quelle che invece sottolineavo con furore, quello che avevo per le mani era un libro che avrebbe segnato uno spartiacque, nella storia dell'editoria gastronomica. L'operazione di Ottolenghi, con tutti i distinguo del caso, era infatti simile a quella di Eco. La', la cultura accademica, qui la Tradizione di una cucina intrisa come nessun'altra al mondo di simbologie religiose che, per la prima volta, veniva liberata dai vincoli dell'ortodossia, per diventare strumento di creativita', di avventura, di divertimento, di scoperta, di nuova vita, insomma. E come Eco aveva agito nel nome di un amore per la cultura vera, cosi Ottolenghi agiva nel nome di un amore profondo e viscerale nei confronti del cibo, al punto da farlo diventare la cifra interpretativa della stessa Gerusalemme, la chiave di volta per ritrovare anche altrove quel dialogo che nelle cucine non ha mai conosciuto soluzione di continuita'.
E al pari di Eco, anche Jerusalem ha aperto un filone aurifero in cui da anni si scava, attingendo meraviglie.
A questo filone appartiene di diritto anche Breaking Breads, di Uri Scheft, che costituisce un ulteriore passo avanti sulla strada aperta per la prima volta da Ottolenghi- in maniera decisa ed estrema. L'operazione commerciale e' evidente (parliamo di una pubblicazione intimamente legata ad una catena di negozi) ma questo non inficia il valore del libro che, anche dopo le tre settimane di duro lavoro delle Starbookers e delle Redoners, conferma il giudizio positivo della prima impressione. Ogni ricetta e' spiegata in maniera che definire esaustiva e' riduttivo: pagine e pagine e pagine, con tutti i passaggi ben specificati, a volte anche illustrati, in un approccio rarissimo da trovare nei libri di cucina destinati al grande pubblico, dove il testo e' breve e l'immagine e' tutto. Qui abbiamo entrambe le cose, in un'operazione editoriale accurata e probabilmente piu' costosa di quanto il prezzo di copertina lasci immaginare (altro punto a favore). Certo, qualcosa non e' riuscito: ma dopo tutti questi anni abbiamo imparato che non e' la singola ricetta che fa il libro. Un bel libro e' quello che non finiresti mai di sfogliare, che riesce a farti venir voglia di cucinare anche quando la voglia la pensavi morta e sepolta sotto decine di priorita' piu' urgenti, che e' tuo fedele alleato nel rastrellare mugolii di piacere, ooooohhh di meraviglia e abbracci pieni di gratitudine, ogni volta che si attingono ricette dalle sue pagine. Questo e' stato per noi Breaking Breads, una storia che non avra' fine con l'ultimo giorno del calendario e che ci auguriamo possa iniziare o proseguire anche nelle vostre cucine, nei mesi a venire: perche' se mai ha un senso il nostro progetto, e' proprio nella condivisione della gioia che si prova quando ci si imbatte in un libro di valore. E Breaking Breads vale, davvero!
Ci vediamo fra due settimane, con il prossimo Starbooks!
Non posso che sottolineare quello che hai scritto, il libro è veramente una base per chi ama i lievitati, hai un dubbio ti viene risolto non come un libro tecnico, ma come uno che è sul campo e ha quella soluzione pratica che ci serve
RispondiEliminaE' stato un immenso piacere poterlo commentare con voi e sicuramente ci saranno altre ricette da proporre
Grazie a tutte Voi
Manu, grazie a te perche' ci hai regalato una partecipazione da incorniciare. E ti aspettiamo ancora, tutte le volte che vorrai. Anche con questo libro!
EliminaMai avrei pensato di paragonare Ottolenghi e Scheft a Umberto Eco, solo tu Ale. :-)
RispondiEliminaCondivido il tuo pensiero da cima a fondo, pur essendo incappata in una ricetta che non riusciva e che mi ha dato del filo da torcere.
Quella che non mi è passata è stata la voglia di panificare e provare altre ricette di questo splendido libro.
Grazie!
a volte, vorrei poter avere un hastag... tipo #lasciateloli #compratelosubito #regalaloaltuopeggiornemico.
EliminaGiusto ravanando alla ricerca di Ottolenghi, ho realizzato che sono sei anni che tiriamo le somme, tutti assieme. Cambiano i libri, ma le considerazioni sono sempre le stesse. E la paura che i lettori si stufino c'e'... ci credi se ti dico che penso piu' agli incipit e alle cornici che a tutto il resto? :)
Dovremmo inserirli, in effetti. Ma poi ci perderemmo il piacere di leggere le tue magnifiche recensioni.
EliminaUn tiriamo le somme meraviglioso. Che ho letto con grande emozione, adorando il parallelo che hai fatto tra Il nome della Rosa e Jerusalem e che ancora una volta esprime la tua profonda conoscenza dell'editoria tutta, non solo gastronomica.
RispondiEliminaE la gioia che sempre segue all'aver scoperto una perla nell'oceano delle pubblicazioni e di averla qui fra le mani, con la stessa emozione di chi scopre una specie rara.
Grazie Ale come sempre per la tua analisi straordinaria.
devo bere di meno, cosa dici? :)
Eliminama come la paura che i lettori si stufino? se siamo qui tutti ad aspettare il verdetto per correre su amazon! a me, parafrasando un noto film, 'mi avevi già convinto al ciao';)
RispondiEliminaridoooo!!!
EliminaHo sempre pensato che tu avessi una marcia in più, e questo post è l'ennesima dimostrazione della tua bravura! Grazie :))))
RispondiEliminaMi accodo alle altre: hai saputo trovare la chiave di lettura per questo libro. E hai proprio ragione, "ma dopo tutti questi anni abbiamo imparato che non e' la singola ricetta che fa il libro" è verissimo. Anche perché probabilmente in ogni libro o quasi si può trovare una ricetta che non viene alla perfezione. È l'insieme, che tiene o non tiene,e a quello che ho visto in questo caso tiene. Anch'io proverò a sglutinare altre ricette, appena riuscirò a respirare...
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