Avrei voluto iniziare questo Tiriamo le Somme con un lapidario "sarò breve: accattevillo" perché, fra quanto anticipato nella Recensione e quanto visto nella rassegna delle ricette, non resta davvero altro da dire. Falastin è un libro da possedere- e da possedere in modo pieno, non solo e non tanto con lo sguardo di chi è in cerca di idee da mettere in tavola ma anche e soprattutto con l'attenzione che si deve ad un'opera completa e per questo difficile da etichettare, in cui la ricetta è il prodotto finale di una storia collettiva che si intreccia con esistenze personali, di una religione che è unica nella misura in cui accoglie e rielabora tutte le istanze, di una cultura che vibra in ogni edificio, in ogni strada, in ogni angolo di questa terra e che fa della Palestina, prima ancora che un luogo geografico, un posto dell'anima e del cuore.
Se mi soffermo un po' di più sulle ragioni dell'imperativo finale (accattevillo) è perché, probabilmente, Falastin segna un punto di svolta nella storia dell'editoria gastronomica. Se infatti 10 anni fa eravamo affamati di ricette e di ingredienti nuovi, al punto da tollerare le storpiature più assurde nel nome di una grattatina di fava tonka o di una spolverata di té matcha e se, poco dopo, ci siamo bruciati il neurone ad inseguire storie sgrammaticate ed improbabili, nel nome di uno Story Telling che al dio della prosa dovrà rispondere di tanti peccati, oggi forse-e dico forse- lo scrivere di cibo ha trovato la sua dimensione. Che, sia detto da subito, non va "avanti", alla ricerca di strade nuove, ma va nel profondo, alla scoperta di mondi antichi; non parla del singolo, ma della comunità; non blatera di ingredienti nel nome del "famolo strano", ma li inserisce con la naturalezza di un palato avvezzo a certi sapori, a certi profumi; e, in ultimo, non parte dalle ricette, ma arriva ad esse, considerandole l'espressione della cultura che le ha prodotte, elevandole dalla dimensione asfissiante delle nonne-mamme-zie per restituirla al flusso della storia dei popoli.
Al di fuori da questa prospettiva, il rischio di giudicare Falastin una copia di Jerusalem ci potrebbe essere: se si guarda solo alle ricette, è tutto un rincorrersi di similitudini e di richiami. Ma al di fuori da questa prospettiva, Falastin non sarebbe il libro che è e non varrebbe nessuna delle considerazioni precedenti.
Un'ultima annotazione, che potrebbe sembrare marginale, ma marginale non è. Sami Tamimi dovette abbandonare la sua casa, nella zona orientale di Gerusalemme, a 17 anni, a causa di una omosessualità che non poteva più essere tenuta nascosta. Era un ragazzino pieno di rabbia, quindi, quando iniziò a cucinare, nei ristoranti della zona occidentale prima e di Tel Aviv poi, condannato ad una solitudine fatta di omertà e di vergogna. La svolta ci fu solo anni dopo, quando nel 1997 si trasferì a Londra, dove incontrò Ottolenghi ed avviò la fortunata carriera che oggi lo vede anche proprietario di alcuni ristoranti, senza l'ombra del socio ed amico. Con la svolta, con il successo e, soprattutto, con la possibilità di poter vivere serenamente la propria sessualità, Sami iniziò a riconciliarsi con il mondo e, in particolare, anche con quella terra da cui si era sentito respinto, tornando ad amarla dell'amore intenso e profondo di un figlio verso la propria madre. Ecco, al di là delle facili retoriche, è questo amore quello che si respira fra le pagine di Falastin: un amore ritrovato e quindi più maturo e consapevole che la penna felicissima di Tara Wigley ha saputo restituire, con una scrittura rispettosa, attenta, emozionante.
Anche questo- o forse, proprio questo- è ciò che fa di Falastin un libro unico, nella sua bellezza e nella sua profondità. E lo so, che bastava dire accattevillo e vi avremmo convinto lo stesso: ma forse, ora lo sarete un po' di più.
Ci vediamo l'anno prossimo, con tanti nuovi libri che ci aspettano!