Qualche anno fa, grosso modo a metà della storia dello Starbooks, avevamo concluso il periodo di prova di un libro con un Tiriamo le Somme negativo (è un eufemismo per "l'abbiamo massacrato senza pietà", ma siamo entrati nel periodo più santo dell'anno e almeno le apparenze, cerchiamo di salvaguardarle)
Nulla di sorprendente, se non fosse stato per la sfilza di promozioni che erano toccate alle ricette provate: a guardar quelle, nessuno avrebbe potuto prevedere un esito così desolante, in special modo le groupies dell'autrice che, difatti, scatenarono una shit storm indegna della loro mentore, ma che ancora ricordiamo come uno dei momenti più significativi in merito alla percezione dei nostri giudizi da parte dei lettori dello Starbooks.
Una delle preoccupazioni costanti del nostro lavoro, infatti, è il tentativo di comunicare un giudizio, oltre al voto. Lo facciamo sistematicamente nelle ricette, cerchiamo di farlo in modo ancora più esplicito nel Tiriamo le Somme, non a caso percepito come essenziale, sin dalla nascita di questo progetto, sulla scia di quei ricordi di scuola in cui il professore che ti dava un brutto voto motivandolo ti era più simpatico di quello che ti faceva sentire un numero- e niente più.
E' per questo motivo che la sfilza di "promossa" che è toccata alle ricette di Jubilee non deve trarre in inganno. E non perché i giudizi non siano fondati, non perché le ricette non siano riuscite.
Ma perché Jubilee è molto, molto, molto di più di quella sequela di promozioni che ha scandito le scorse settimane e che potrebbe trarre in inganno un lettore distratto, facendolo equiparare ad altri libri che, allo Starbook, hanno avuto la stessa sorte.
Per usare una metafora, Jubilee sta agli altri ottimi libri visti in questi anni come un fuoriclasse sta ad un campione. Sul quale non c'è nulla da eccepire, naturalmente: ma per lasciare un segno, serve molto di più. Quel "molto di più" che, nella fattispecie, è concentrato nell'enorme lavoro di ricerca da cui sono scaturite le ricette e che trasforma questo libro da un ottimo manuale di cucina ad una pietra miliare nella storia tutta degli Afro-Americani.
Quella che a noi, lettori bianchi ed europei, appare come una pregevole ricerca storica, da affiancarsi alle altre per una migliore comprensione della tradizione gastronomica di questo popolo, ha ben altra valenza se letta con gli occhi dei discendenti di quegli schiavi a cui furono negati non solo tutti i diritti, ma anche una identità di popolo. Dietro un colore, usato nella sua accezione più dispregiativa di "niger", infatti, i Bianchi pretesero che non ci fosse altro. Non un passato, non una storia, non una cultura- e meno ancora una diversità, di lingue, di tradizioni, di usanze. Una volta deportati nelle Low Countries, tutte queste persone perdevano le loro radici, uniformate nel nulla più assoluto, a dispetto di una crescita e un arricchimento evidenti, che andavano ben oltre il dato materiale: basti pensare alle tante colture introdotte dall'Africa e sviluppate materialmente da schiavi che, ben lontani dall'essere una semplice forza lavoro, erano i soli depositari di competenze altrimenti introvabili.
Non è un caso che gran parte degli sforzi delle comunità afro-americane, in questi ultimi decenni, siano tesi alla riaffermazione e alla tutela delle singole culture, nella consapevolezza che la riparazione dei torti passi da lì, dal riconoscimento di una identità di popoli, con le ovvie conseguenze di un rispetto e di una dignità che nulla hanno a che fare con l'odiosa moneta della compassione: in questo senso, la prefazione di Toni Tipton-Martin, che insiste da subito sulle sue origini alto- borghesi, status symbol inclusi, va letta come la prima picconata a quegli stereotipi melensi e fastidiosi del "povero nero", demoliti senza polemiche, ma con l'evidenza dei fatti.
Dopodiché, inizia la ricostruzione, nelle forme di una indagine minuziosa attraverso 200 anni di libri di cucina, nella convinzione che la cucina sia essenzialmente un fatto di cultura e le ricette espressione di quella catena di trasmissione che oggi si chiama tradizione e che da sempre è il vero filo diretto con la nostra storia, di popoli, di famiglie, di persone.
Un'operazione che ha sicuramente dei precedenti ma che in questo caso è resa unica e straordinaria dalla commovente volontà di voler fissare su carta quello che tutto il resto era determinato a voler cancellare e a cui ora la Tipton-Martin dà voce, in un'opera corale che restituisce agli Afro-Americani una parte preziosa del loro passato e a noi lettori una ricchezza mai immaginata- oltre che uno spunto importante di riflessione e un nuovo modo per chiedere scusa.
Ci vediamo ad Aprile, con il prossimo Starbook