Chi scrive - che poi sono Alessandra, non sia mai che si dica che non ci metto la faccia :) - dicevo chi scrive sostiene da anni che la ricerca più significativa che sia stata fatta in cucina, in questa prima tranche del Terzo millennio, provenga non dal versante della ristorazione tradizionale, ma da quello vegano, tout court.
Lo sostengo senza essere vegana, anzi, non condividendo gran parte di questa filosofia, sebbene gusti personali (non mi piace la carne) e vicissitudini familiari (viviamo nel continente più inquinato del mondo dove non esiste una parvenza di tracciabilità del cibo) mi abbiano sospinto sempre di più verso una dieta povera di proteine animali: ma, teorie a parte, è innegabile che i veri passi avanti nella direzione del nuovo siano stati fatti dai sostenitori di questo pensiero.
Prima che si sollevino le obiezioni, la cucina vegana non è la bistecchina di Seitan o il pallido tofu che sistematicamente compare sulle pagine di FB per essere dileggiato dai carnivori: è qualcosa di molto più ampio, strutturato e complesso che però, nella sua intersezione con la tradizione, è entrato da qualche anno anche a far parte anche delle nostre diete. L'intuizione più felice, infatti, quella che ha dato credibilità a questi piatti, è stato l'innesto della innovazione sul recupero dell'esistente, tradottosi, nella fattiscpecie, in uno sguardo a 360 gradi su tutte le cucine del mondo, con particolare riguardo per quelle che per ragioni storiche facevano ampio uso di legumi (il Medioriente) e di alternative ai prodotti animali (l'Oriente). Se oggi siamo tutti pazzi per gli hummus e i falafel, insomma, dobbiamo dire grazie a questa ricerca: e se mangiamo con soddisfazione hamburger di lenticchie, beviamo cocktail con la schiuma che, vivaddio, non sanno di uovo o troviamo che anche i finti formaggi a base di frutta secca fermentata abbiano una loro dignità è grazie all'innesto di cui sopra che, come dicevo, trova la sua plausibilità e l'origine del suo successo dalle radici su cui si innesta che sono quelle di una tradizione santificata da secoli, pranzo dopo pranzo.
E' dunque per questo che oggi la cucina vegana in senso lato trova spazio nella nostra dieta, a casa come fuori, senza che la cosa ci disturbi più di tanto. Logico, il carnivoro non sarà soddisfatto fino a quando non avrà mangiato la sua bistecca di brontosauro o l'hamburger al sangue che ancora muggisce, ma chi ama i vegetali troverà alternative più divertenti ed appaganti della verdura grigliata, bollita o in insalata. E questo, credetemi, è un bene per tutti.
La cucina Plant-Based è un passo avanti, nella direzione più estrema della cucina vegana, declinata sulla base di quel concetto di "salute a tavola", tanto abusato nei nostri tempi. Al Veganesimo, infatti, della salute importa poco: uno può essere vegano mangiando solo patatine fritte del Mc Donald e Oreo del supermercato: il fegato sarà spappolato, ma la coscienza immacolata. I seguaci del Plant- Based, invece, esigono prima di tutto anche la loro salute, non solo quella del pianeta: per cui, no ai cibi raffinati, no ai cibi lavorati, no allo zucchero, sì alla verdura, alla frutta e ai legumi, a patto che siano tutti integrali e non sottoposti a processi di sbiancamento e trasformazione. E' la moda di questi ultimissimi tempi e, come tutte le mode, si osserva con uno scetticismo reso ancora maggiore, nel mio caso, dalle premesse salutistiche su cui si fonda (sono ancora del partito che la salute sia una faccenda da lasciare ai medici laureati, per dire).
Resta comunque il fatto che ogni tipo di cucina si giudichi una volta che finisce nel piatto: una porzione di patatine fritte dorate, croccanti, asciutte, sapide all'esterno e dolci all'interno, che scrocchiano sotto ai denti per poi sciogliersi in bocca in una voluttuosa morbidezza è una gioia del palato, quale che sia l'opinione dei medici e dei dietologi. Sta al singolo mangiarle con moderazione- ma che siano irresistibili è un dato di fatto.
Di conseguenza, noi dello Starbooks siamo aperti a qualsiasi proposta, innovativa o meno: in tutti questi anni, abbiamo messo da parte i nostri gusti personali per concentrarci solo sulla ricetta, dalla lista degli ingredienti al risultato finale.
Nello stesso tempo, in un libro, la riuscita delle ricette è solo uno dei parametri per la valutazione, da tanti sono i fattori che concorrono per decretarne l'utilità, tant'è che in alcuni casi abbiamo avuto dei Tiriamo le Somme benevoli anche a fronte di qualche bocciatura e impietosi anche su un panorama di promozioni. Questo vale, naturalmente, soprattutto per quei libri che fanno della "semplicità" e del "come natura crea" la loro bandiera. Perchè a mettere insieme due foglie di insalata con due fette di pomodoro o a imbottire un panino con la salsiccia e la senape siamo capaci tutti. Quello che si ricerca, se si acquistano libri (e si spendono soldi per questo) sono idee nuove sempre e, al giorno d'oggi, nuovi sapori, nuove combinazioni, nuovi utilizzi di ingredienti noti, nuove tecniche e cosi via. Qualcuno dirà che Ottolenghi ci ha bene abituato- e lo dirà con ragione: ma è innegabile che tanti autori, dopo di lui, abbiano capito che la musica è cambiata e si siano affrettati a modificare la direzione della loro ricerca, accordandola su questo nuovo spartito (Diana Henry e Anna Jones, tanto per citare due nomi cari al nostro progetto).
Deliciously Ella, invece, non lo fa. Le sue ricette plant based non hanno nulla di veramente fresco e di leggero e portano, semmai, il marchio greve del già visto, già sentito, già assaggiato. Dove si avventura in sperimentazioni interessanti (il risotto), fallisce miseramente, dove potrebbe azzardare una deviazione dal de ja vu, si tuffa nel Banal Grande, dove potrebbe seguire una sua personale ispirazione, la stempera in un'accozzaglia di piatti anonimi e poco incisivi. Il tutto peggiorato da un posizionamento editoriale nella fascia delle nuove diete, all'alba di una nuova moda che, conoscendo le enormi potenzialità delle materie prime coinvolte, potrebbe e dovrebbe elaborare sapori e tecniche nuove. Quali, ancora non lo sappiamo: anche se non è una novità in senso stretto, il Plant Based sta comunque muovendo i suoi primi passi, in un sentiero in cui per il momento sono definiti i principi e i paletti. La teoria c'è, insomma, mentre manca qualcuno che la metta in pratica e lo faccia con quella ispirazione da cui discendono le creazioni degne di essere ricordate e ripetute, capaci di sfondare anche le porte delle cucine del "famolo normale", le più aperte ad accogliere anche quello che "normale" non è.
Ci aspettavamo di trovarlo in Ella Mills, alla luce del successo planetario, dell'attività dei suoi media, delle vendite dei suoi libri e invece no, so sorry: ci siamo sbagliati.
Ci rivediamo a giugno, per l'ultimo Starbooks prima della pausa estiva!
Alessandra
Nello stesso tempo, in un libro, la riuscita delle ricette è solo uno dei parametri per la valutazione, da tanti sono i fattori che concorrono per decretarne l'utilità, tant'è che in alcuni casi abbiamo avuto dei Tiriamo le Somme benevoli anche a fronte di qualche bocciatura e impietosi anche su un panorama di promozioni. Questo vale, naturalmente, soprattutto per quei libri che fanno della "semplicità" e del "come natura crea" la loro bandiera. Perchè a mettere insieme due foglie di insalata con due fette di pomodoro o a imbottire un panino con la salsiccia e la senape siamo capaci tutti. Quello che si ricerca, se si acquistano libri (e si spendono soldi per questo) sono idee nuove sempre e, al giorno d'oggi, nuovi sapori, nuove combinazioni, nuovi utilizzi di ingredienti noti, nuove tecniche e cosi via. Qualcuno dirà che Ottolenghi ci ha bene abituato- e lo dirà con ragione: ma è innegabile che tanti autori, dopo di lui, abbiano capito che la musica è cambiata e si siano affrettati a modificare la direzione della loro ricerca, accordandola su questo nuovo spartito (Diana Henry e Anna Jones, tanto per citare due nomi cari al nostro progetto).
Deliciously Ella, invece, non lo fa. Le sue ricette plant based non hanno nulla di veramente fresco e di leggero e portano, semmai, il marchio greve del già visto, già sentito, già assaggiato. Dove si avventura in sperimentazioni interessanti (il risotto), fallisce miseramente, dove potrebbe azzardare una deviazione dal de ja vu, si tuffa nel Banal Grande, dove potrebbe seguire una sua personale ispirazione, la stempera in un'accozzaglia di piatti anonimi e poco incisivi. Il tutto peggiorato da un posizionamento editoriale nella fascia delle nuove diete, all'alba di una nuova moda che, conoscendo le enormi potenzialità delle materie prime coinvolte, potrebbe e dovrebbe elaborare sapori e tecniche nuove. Quali, ancora non lo sappiamo: anche se non è una novità in senso stretto, il Plant Based sta comunque muovendo i suoi primi passi, in un sentiero in cui per il momento sono definiti i principi e i paletti. La teoria c'è, insomma, mentre manca qualcuno che la metta in pratica e lo faccia con quella ispirazione da cui discendono le creazioni degne di essere ricordate e ripetute, capaci di sfondare anche le porte delle cucine del "famolo normale", le più aperte ad accogliere anche quello che "normale" non è.
Ci aspettavamo di trovarlo in Ella Mills, alla luce del successo planetario, dell'attività dei suoi media, delle vendite dei suoi libri e invece no, so sorry: ci siamo sbagliati.
Ci rivediamo a giugno, per l'ultimo Starbooks prima della pausa estiva!
Alessandra