Chiedo scusa se questo Tiriamo le Somme sarà breve, a discapito dell'inifinità di spunti offerti dallo Starbook del mese: ma a volte la vita reale si infiltra a tal punto in quella virtuale da condizionarla, a maggior ragione se gli eventi riguardano una connessione tale solo di fatto.
Nello stesso tempo, la brevità forzata mi evita due dei peggiori rischi, sempre incombenti quando si affrontano argomenti come quello che ispira We Are la Cocina. Il primo è la retorica, che notoriamente non abita qui ma tant'è, potrebbe anche fare capolino, ogni tanto. Il secondo, invece, è un tema a me molto caro, oggi purtroppo abusato, vale a dire quello del cibo come identità. Si tratta di un concetto cardine dell'antropologia a cui è toccata la sorte, peraltro condivisa da tutti gli argomenti "tecnici" che finiscono nel calderone delle opinioni, di essere compreso solo in superficie e, di conseguenza, frainteso o non capito. Purtroppo o per fortuna, il concetto di cibo identitario è offuscato da temi più caldi, quali il virus, i cambiamenti climatici e- vivaddio- la formazione della squadra di calcio: però, nel settore più "specialistico" (perdonatemi le virgolette) di chi fa comunicazione nel cibo, si parla oggi anche di questo.
Dire che il cibo è identità, però, significa molte cose, a cominciare dalla definizione stessa di identità, che è molto più frammentata di quanto si immagini: per esempio, se dovessimo trovare un piatto identitario, per noi Italiani, difficilmente ci troveremmo d'accordo. E ammesso e non concesso che lo trovassimo, scatterebbe subito la gara alla ricetta perfetta- ovviamente, sempre quella di casa nostra. La nostra identità, cioè, è il prodotto di tante identità diverse- nazionali, regionali, cittadine, familiari, culturali, religiose- e non è riducendo il processo ad uno slogan che si affronta la faccenda.
Il pregio principale di We Are La Cocina è proprio questo: quello di aver preso questa equazione come un assioma, qualcosa di scontato, di indiscutibile, così incardinato in certa cultura del III millennio da poter anche essere messo da parte. Non se ne parla perché non ce n'è più bisogno. Agli autori del libro, cioè, non interessa se questo non è il piatto nazionale di un dato Paese o se la ricetta non è quella scolpita sulle Tavole della Legge e neppure se, migrando in un Paese lontanissimo da quello di origine - di una distanza geografica e climatica, in primo luogo- si sia dovuti scendere ai patti con certi ingredienti. Quello che ci interessa è il messaggio, nella sua integralità: una storia, un piatto, un progetto che ha dato i suoi frutti, permettendo ai protagonisti del libro di iniziare una nuova vita, autonoma e proficua. Ulteriore novità (e questa potrebbe essere una spina nel fianco, per molti cultori della retorica) è che l'integrazione qui esaminata ha un pilastro fondamentale nella indipendenza economica, pensata nei termini di una imprenditorialità. La simpatia, che è parola più bella di compassione, ha assunto le forme di un aiuto concreto, per tracciare una strada che però va percorsa con le proprie gambe. E il sentimento di gratitudine che è trapelato da queste storie è frammisto all'orgoglio di chi sa di avercela fatta.
Il resto è tutto nel libro che, come dicevamo all'inizio e come è stato ben messo in mostra nei nostri appuntamenti quotidiani , non è solo una raccolta di ricette, anche se il cibo resta comunque il cardine di tutto il progetto: è il "condimento" che cambia, questa volta, dando a questi piatti una profondità che ci aiuta ad essere più consapevoli del mondo che ci circonda.
E scusate se è poco.
Ci vediamo ad Ottobre, con il nuovo Starbook!
Alessandra G.