Una manciata di anni fa, quando ancora imperava la polemica fra giornalisti e foodblogger, ero stata invitata a partecipare ad un evento loro riservato, ufficialmente per fare un passo avanti sulla strada della comprensione, ufficiosamente per partecipare a una gara al massacro, con la sottoscritta al posto del bersaglio.
Fra le cose che mi avevano contestato c'era stata quella dei modelli di scrittura.
Avevo sostenuto, infatti (e lo sostengo ancora) che la scrittura dei food blogger italiani aveva una matrice chiaramente anglosassone. Anthony Bourdain, Ruth Reichl, Nigella Lawson, Nigel Slater erano i nomi più ricorrenti, , Jonathan Gold, Craig Claiborne, Michael Pollon e molti altri quelli per i più maniaci o per gli addetti ai lavori.
Che poi i food blogger italiani in larga maggioranza non sapessero scrivere di cibo e, in larghissima maggioranza, non sapessero nemmeno scrivere questa era un'altra faccenda che,ai tempi, discutevo con passione dalle pagine del mio blog. Tant'è che, all'epoca, mentre difendevo a spada tratta la categoria, brividi di paura mi scendevano lungo la schiena, al pensiero che sarebbe bastato aprire un blog a caso e leggere il primo paragrafo, se non la prima frase, se non addirittura il titolo per smontare le mie teorie, senza lasciarmi neppure l'onore della resa.
La strategia, però, era quella di andare dritti al cuore del problema, vedere la reazione e poi, da lì, capire come andare avanti.
Col senno di poi, avrei dovuto studiare meglio i testi sacri, dall'Arte della Guerra ai diari di Rommel: non solo ero andata a parlare di corda in casa dell'impiccato, ma avevo anche sostenuto impavidamente che bisognava impiccarsi con le corde della concorrenza- per giunta su un tema come il cibo.
Come dire, pazienza se avessi citato i Francesi.
Ma Britannici e Statunitensi, quella era un'offesa cosmica.
La reazione, ahimè, fu un rosario di nomi italiani.
E Veronelli, e Carnacina, e Soldati e Bonaccorsi e via dicendo
(via dicendo non è il nome di un giornalista gastronomico italiano).
Li abbiamo avuti anche noi- sostenvano- è che voi (foodblogger) non li conoscete.
Il che è verissimo, se non fosse per un piccolo dettaglio.
E cioè, per esempio, che la sottoscritta ha dovuto penare anni per recuperare sulle bancarelle dell'usato i suddetti ed altri autori e, in qualche caso, mi son dovuta arrendere (Gianni Brera, per esempio): i loro volumi, sgualciti, macchiati e con un puzzo di cantina umida che offende le narici ogni volta che li apro sono stati per anni accanto alle nuove edizioni dei libri degli autori stranieri appena citati, lucide, nuove, profumate, oltre agli annuari dei migliori articoli di cibo, pubblicati regolarmente negli USA.
Perchè, vedete, se si vuol conservare la memoria di qualcosa l'unico modo è mantenerne vivo il ricordo. E su questo, purtroppo, noi Italiani ancora abbiamo da imparare.
Quando mi sono laureata, più di 30 ani fa, scegliendo il cibo come argomento della mia tesi di laurea, ero una mosca bianca e una delle tante lamentele nella mia carriera da insegnante riguardava proprio il vuoto assoluto legato a questo argomento negli studi di Storia prima e di Italiano poi. Possibile?, mi chiedevo da studente prima e da insegnate poi- Possibile che su un argomento su cui dovremmo aver speso fiumi di inchiostro, rivendicando paternità legittime e ruoli di assoluto dominio, non si sia scritta una riga? Possibile che la nostra cultura in materia di cibo sia affidata ancora alle mani delle mamme e delle nonne e manchino studi che diano un fondamento alle ricette, che ne spieghino la storia e lo spessore? Possibile che non ci siano tracce di una cultura ultramillenaria, che ci appartiene in modo cosi esclusivo da aver plasmato il nostro stile di vita?
Possibile si, anzi, dolorosamente vero.
Tanto che se i libri di cucina italiani di questi ultimi anni- e qui arrivo al punto- sono cosi deboli e cosi impersonali, il motivo è proprio questo.
Che chi di dovere (programmi scolastici, giornalisti, editoria) non ha saputo coltivare la nostra memoria in merito di cibo.
Lo hanno fatto e continuano a farlo gli Anglosassoni, con il risultato che la loro scuola sforna talenti, ogni anno. Nessuno di loro è un prodotto totalmente nuovo, ma tutti hanno le spalle sufficientemente coperte da poter osare qualcosa di nuovo. Sono questi gli eredi di Nigella, di Ottolenghi, di Jamie Oliver- e Anna Jones è di sicuro la più brillante di tutti.
Eravamo scettici, all'inizio, un po' infastiditi da quel "modern" così ostentato nelle copertine dei suoi libri, quasi che suonasse come una sbruffonata giovanile, quelle che abbiamo perdonato ad un irresistibile Jamie e a lui solo.
In realtà, ci siamo dovute ricredere e proprio nell'ottica di questa eredità che le permette di imporre la sua personalità, in un patrimonio genetico ben riconoscibile. Pensate a un figlio, che porta in sè i tratti dei genitori ma riesce comunque a sviluppare una personalità propria ed avrete il ritratto di Anna Jones e dei suoi libri: una ventata di giovinezza, una nuova primavera, un rigoglioso fiorire di teneri boccioli su un albero che trae la sua forza dalle radici, ben piantate nel terreno, una voce nuova, nella quale risuonano echi antichi, di voci amiche.
Consigliatissimo, insomma.