Se avete seguito le precedenti puntate delle Starbook di maggio, già sapete che la discussione intorno a questo libro si è immediatamente svolta su due binari: da un lato, la valutazione astratta delle ricette, secondo i nostri consueti parametri (riescono/non riescono; sono ben spiegate/non lo sono; i risultati son soddisfacenti/fan pietà); dall'altro, una serie di considerazioni a latere, che mai come in questo caso si rendono necessarie, considerato che lo scopo che anima It's all Good è strettamente legato ad una filosofia alimentare. Non una raccolta di ricette tout court, cioè, ma una selezione di piatti e di ingredienti legati all'adesione ad una dieta peculiare che, secondo la sua autrice, ha prodotto tali e tanti benefici da dover essere divulgata urbi et orbi, dalle pagine virtuali del suo blog a quelle reali della sua ultima fatica letteraria.
Di conseguenza, anche questo Tiriamo le Somme risente di necessità di questo dualismo: perchè, sia chiaro, l'acquisto di questo libro è consigliato solo ed esclusivamente a chi concorda con le scelte alimentari della Paltrow (o, più elasticamente, con un approccio all'alimentazione basato sulla eliminazione piuttosto che su una equilibrata varietà): in questo caso, si avrà sottomano uno strumento efficace, garanzia di una serie di piatti "sani", di sicura riuscita oltre che fantasiosi e divertenti.
Per gli altri, la questione è aperta e meritevole di qualche approfondimento, senza nessuna pretesa di dettar legge o, meno che mai, di risolverla con un punto definitivo: prendetele come riflessioni, altrettanto aperte e disponibili a cambiamenti di rotta, che auspichiamo possano servire come stimolo ad una nutrizione sempre più consapevole.
In primo luogo, a noi piacerebbe che si ragionasse sempre da Italiani: e non per questioni di campanile, ma proprio in nome della consapevolezza di cui sopra. Il mondo ci invidia la ricchezza di prodotti che da sempre ha contraddistinto il nostro Paese e le astuzie dell'intelligenza che, nei secoli, ci hanno permesso di costituire un sistema alimentare di una varietà pressoché unica, almeno in Europa: rinnegarlo in nome di mode zoppicanti e a volte un po' patetiche, che propongono come modello di salute oli di semi di canola o cibi in scatola, è, ancor prima che un errore, una stupidaggine. E' un po' come avere un armadio pieno di vestiti pregiati, con stoffe naturali e tagli di alta moda- e indossare straccetti in acrilico, sostenendo che sono più belli e più eleganti: ci prenderebbero tutti per scemi- e ci toccherebbe pure dar loro ragione.
Nello stesso tempo, anche un armadio pieno zeppo di abiti belli può non essere adatto a noi: esistono le stagioni, le inclinazioni personali, i difetti da nascondere, i pregi da accentuare: e lo stesso discorso vale per la nostra dieta: un conto è rinnegare la bontà dei nostri prodotti e dei nostri piatti, per sceglierne altri qualitativamente inferiori, nella convinzione che "facciano bene". Un altro è adattare la varietà della nostra gastronomia alla nostra dieta.
E qui, arriviamo al secondo punto della questione, legato a questioni storiche e culturali che hanno profondamente inciso nella storia del nostro popolo- vale a dire, la funzione simbolica che nei secoli è stata riconosciuta al cibo come elemento di distinzione sociale.
E' arcinoto l'episodio della vita di Carlo Magno, raccontato dal suo stesso medico, che ricorda come l'Imperatore, sofferente per la gotta negli ultimi anni della sua vita, si fosse rifiutato di mangiare carne lessa e di astenersi da quella arrostita, che gli era nociva. Alla base, non c'era una questione di gusti, ma di immagine: la carne arrosto era sinonimo di potere, quella lessa di debolezza e anche se Carlo era consapevole che avrebbe accelerato la sua morte o comunque reso più doloroso il tempo che gli restava da vivere, non volle mai piegarsi ai consigli dieteteci del suo medico.
Anche se la distinzione non fu sempre così netta, per secoli sulle mense europee ci fu il cibo dei ricchi e il cibo dei poveri- e scavalcare questo confine aveva delle implicazioni sociali e politiche pericolose. Il che, tradotto sul piano pratico, significò una dieta squilibrata, da una parte e dall'altra, assunta specie nelle occasioni ufficiali al solo scopo di manifestare una condizione di potere che trovava nel banchetto la sua massima espressione.
Tale squilibrio- pesantemente accentuato dalla precarietà di un'economia esposta di continuo a carestie, saccheggi, guerre ed epidemie- finì per provocare conseguenze devastanti non solo sulla vita dei poveri (come è facile da capire), ma anche su quella dei ricchi: se da una parte si moriva per pellagra e per denutrizione, dall'altra si soffriva per la gotta, per il colesterolo, per tutte quelle malattie cardiovascolari da sempre associate ad un abuso di determinati nutritivi che erano una costante sulle tavole dei nobili e degli alto borghesi.
E quando la Rivoluzione francese e l'avvento della borghesia iniziarono questo processo di uniformità sociale, che avrebbe di necessità coinvolto anche il cibo, arrivarono i due grandi conflitti mondiali, ad obbligarci nuovamente a diete squilibrate. E' solo da qualche decennio che, vivaddio, possiamo godere tutti della stessa scelta di apporti nutritivi, a garanzia di una alimentazione equilibrata: in più, essendo Italiani, possiamo goderne al massimo grado, sia sotto l'aspetto della qualità dei prodotti che sotto quello della varietà delle tecniche culinarie che ci permettono di trasformarli in mille e mille modi diversi. E invece, torniamo all'antico...
Ultima riflessione: anche se ora va di moda sostenere che tutto fa male (e questa è anche la filosofia del libro della Paltrow, a dispetto del titolo che sembra annunciare il contrario), sposare queste tesi in modo incondizionato è altamente pericoloso. Per una persona sana, che non soffre di patologie legate all'alimentazione, infatti, è vero l'opposto: tutto fa bene, se assunto in dosi equilibrate e se inserito all'interno di un concetto ampio di dieta, che include uno stile di vita altrettanto sano. Eliminare il glutine è un obbligo, per i celiaci, un errore per chi celiaco non è; e lo stesso vale per lo zucchero, per i latticini, per i grassi, per le vitamine, per i sali. Una colazione fatta con una fetta di crostata (fatta con farina, zucchero, uova e burro e farcita con una buona marmellata) non uccide nessuno- e anzi, semmai mantiene viva una tradizione culturale secolare, che è parte integrante della nostra identità. Senza contare che ravviva l'abitudine al gusto, altro elemento cardine della nostra cultura (e se non siete d'accordo, leggetevi Brillat- Savarin, e poi ne riparliamo): illudersi di barattare la salute costringendosi a mangiare mappazzoni insapori, a base di sciroppi di questo e oli di quello, non è solo frustrante ma, come dicevo, è anche un po' stupido.
Perchè mentre noi famo gli Ammericani, Jamie Oliver sbarca nelle edicole italiane con la sua rivista che esalta la dieta mediterranea e aggiunge un altro piano al grattacielo del suo impero, costruito prevalentemente sulla diffusione delle nostre ricette, diffondendo nel mondo una "cucina italiana" abortita nelle sue radici e involgarita nella sua bellezza, ma presentata ovunque come modello di salute e di vita sana.
E noi, invece, affolliamo i Naturasì, per comprare costosissimi "sciroppi di riso" e "farine bianche di farro, a scarso contenuto di glutine" , spendendo cifre fuori misura, quando un buon miele e una buona farina ci costerebbero di meno e ci farebbero meglio, non fosse altro che per l'assenza di tutti quegli ingredienti nascosti che son scritti in piccolo nelle etichette sul retro.
Perchè l'han detto le Iene, The China Study o la Gwynneth di turno.
Quousque tandem continueremo a farci prendere in giro così?
Al prossimo SB!