C'era una volta un re (toh, che strano), che si chiamava Carlo II Stuart.
Suo padre, Carlo I, si era fatto talmente prendere la mano dalle politiche dell'assolutismo che tanto funzionavano nella vecchia Europa da dimenticarsi che in Inghilterra non gliela avrebbero fatta passare liscia: il tempo di due o tre decreti manifestamente contro la liberta' del Parlamento ed ecco pronta la rivoluzione, con tanto di ghigliottina d'ordinanza, adeguata risposta "europea" alle altrettanto europee ambizioni del sovrano.
Ma, si sa, agli Inglesi l'Europa non piace: e così, dopo aver tentato di cancellare l'onta del re giustiziato in un modo cosi dannatamente passionale e volgare con due punti di sutura e una bella canonizzazione (giuro: gli riattaccarono la testa e lo fecero santo), dopo aver lasciato arrugginire la ghigliottina in qualche segreta della Torre di Londra, dopo aver seppellito con Oliver Cromwell anche tutte le noiosaggini del Puritanesimo, si affrettarono a richiamare in patria il loro legittimo sovrano, con tante scuse.
Il dispaccio arrivo' in Europa, dove Carlo II stava allenandosi a diventare re, fra intrighi politici e schermaglie amorose. Doveva essere bravo in entrambe, visto che riusci' a impossessarsi del trono nel giro di pochi anni e ad avere 12 figli, a dispetto di una moglie sterile. Ma il campo in cui raggiunse livelli di eccellenza fu il francesissimo bon vivre, a cui lo inizio' il cugino di Francia, tale Luigi XIV, nel buen retiro alle porte di Parigi, in quella Versailles destinata a passare dall'anonimato della provincia all'emblema di un assolutismo sfrenato, in pochi decenni.
E l'assolutismo, Carlo II lo aveva proprio nel DNA: hai voglia a crescere mite e moderato, se tuo padre e' l'unico re giustiziato della storia d'Inghilterra e sei cugino primo di Re Sole, per parte di madre. Solo che, a differenza dei genitori, il rampollo prese da subito un altro indirizzo di studi: alle strategie della politica, preferi' quelle delle schermaglie amorose, ai giochi di alleanze quelli di carte e al gusto per gli intrighi, quello della buona tavola. Scoperta, in tutta la sua magnificenza, a Versailles e nelle regge satellite.
Ora - e qui ci avviciniamo all'argomento - non e' che nell'Inghilterra del XVII secolo si mangiasse male. O meglio: non e' che si mangiasse diversamente dal resto dell'Europa. La cucina dei poveri era forzatamente quella che noi oggi chiamiamo "di territorio", elevando a gastrofighettismo quel km 0 che a quei tempi era la necessita' per sopravvivere. Quindi, diversa e variabile, a seconda del tempo e dello spazio.
La cucina dei ricchi invece era la stessa, ovunque. Non c'erano stagioni, non c'erano territori, non c'era nulla di tutto quello che incide sulla personalita' di un piatto.
Questo perche' a dominare nelle cucine regali erano regole strettissime, che spaziavano dal salutismo alla ragion di stato e che non dovevano essere modificate, pena la perdita di quell'immagine di potere che trovava la sua apoteosi nel banchetto. In Italia, in Francia, in Spagna e anche in Inghilterra, cioe', si mangiavano le stesse cose, preparate allo stesso modo: potevano variare alcuni ingredienti, sulla base della disponibilita' del mercato: ma tecniche e sapori erano praticamente gli stessi.
A dettar legge, fino al secolo prima, erano stati gli Italiani: fantasia, ricchezza, posizione geografica e genialita' avevano fatto si che dall'Italia partissero tutte le mode in tema di gastronomia: e se oggi i Francesi tendono a ridimensionare la portata delle innovazioni di Caterina de' Medici nella loro tradizione, e' solo perche' la verita' fa male e a volte brucia, anche dopo secoli.
Ma quando, il secolo successivo, l'Italia infilo' il tunnel delle dominazioni straniere, ecco che il testimone passo' al di la' delle Alpi e, all'improvviso, tutto cambio'.
Il cambiamento era nell'aria da un po', ad essere sinceri: la diffidenza verso i prodotti importati dalle Americhe andava finalmente scemando, le coltivazioni della canna da zucchero nelle isole europee avevano reso accessibile a tutti il gusto del dolce, le tecniche si stavano affinando, la chimica stava nascendo: aggiungeteci un re ricchissimo e gaudente, una brigata di cuochi geniali e desiderosi di sperimentare e un pubblico ansioso di novita' - ed ecco spiegato perche', quando Carlo II ando' a trovare il cugino, desidero' farsi inchiodare alla tavola e non muoversi mai piu' da li'.
Fu il richiamo della Storia, a farlo tornare in patria: ma, con lui, sbarcarono anche queste nuove maniere,questa raffinatezza ricercata e nuova, questa cucina cosi raffinata, seducente e sorprendente che divenne il nuovo simbolo del potere, al di qua della Manica.
E' qui che si segna l'inizio dell'unica sudditanza che il popolo inglese subi', nel corso della sua storia: fu la cucina francese, e non quella nazionale, a diventare l'emblema dello status sociale dei ricchi, con una distinzione nettissima, che si e' mantenuta fino alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale: ad eccezione dell'inglesissimo Afternoon Tea, i piani alti mangiano alla francese e i piani bassi all'inglese, con tutte le implicazioni emotive che ne conseguono, prima fra tutte il senso di inferiorita' che, dalla classe sociale, si estende alla tradizione gastronomica.
Da qui anche la degenerazione del gusto, il dilagare dello scatolame, del cibo "fast", "junk" e tutti i peggiori aggettivi che vi vengono in mente, che hanno consolidato nell'immaginario collettivo la convinzione che male come in Inghilterra non si mangi in nessun'altra parte del mondo.
Se da vent'anni a questa parte le cose sono cambiate e oggi gli chef Inglesi e la loro cucina occupano un meritatissimo posto al sole, e' grazie soprattutto ad un manipolo di scrittori che, dalla fine degli anni Sessanta a oggi, ha fatto di tutto per non disperdere il patrimonio della cucina inglese e britannica: quando nell'italica patria del buon cibo chi ne scriveva inneggiava ai surgelati, al dado da brodo, alle scatolette e alla cucina in 5 minuti, in Inghilterra autrici straordinarie come Elizabeth David e la mia adorata Jane Grigson parlavano di cibo sano e buono, non avendo paura di intitolare i loro libri "Good Things" e a dilungarsi per pagine sulla bonta' dei prodotti del loro territorio. Quando l'editoria italiana si e' accorta che c'era un mondo oltre il nostro mare e le nostre Alpi, Claudia Roden aveva svelato da trent'anni, agli inglesi e da naturalizzata inglese, la cucina mediorientale. Quando gli Americani hanno santificato Julia Child, che insegnava loro a cucinare alla francese, gli Inglesi erano tornati da decenni ai puddings e agli stufati, grazie a Delia Smith, a Linda Collister, a Mary Berry. E quando le nostre riviste hanno preso la triste china che, seppure con qualche eccezione, le ha portate al piattume dei nostri giorni, un certo Nigel Slater decideva di parlare del cibo britannico nella sua semplicita', trovando proprio in questa chiave la ragione unica per esaltarlo.
E' anche a Nigel Slater, ultimo rappresentante di questo primo gruppo di coraggiosi rivoluzionari, che si devono la tutela ed il riscatto di quell'enorme patrimonio di ricette che costituiscono l'ossatura della tradizione britannica: onesta, semplice, buona e capace di guizzi sorprendenti. Lui la racconta con toni gentili e con le parole giuste, da sempre: nei Kitchen Diaries, con una vena intimista che gli deriva forse dall'eta' ma che non sconfina mai nel patetico o nel sensazionale. Le sue ricette sono mille variazioni sul tema di un mangiare bene all'inglese, attingendo alle risorse di un mercato che da secoli usa e conosce prodotti piu' o meno locali, cucinati con semplicita' e raccontati con garbo e leggerezza.
Nessuna delle Starbookers aveva dubbi, sulla "tenuta" di questo testo: le remore che per anni ci hanno trattenuto dal proporre questo autore allo Starbooks nascevano semmai proprio da qui, dalla certezza del risultato, unita al timore di una supponenza che mai come in questo caso non ci appartiene. Nello stesso tempo, l'ondata dei nuovi autori, con l'enorme potere mediatico che li accompagna, rischia di eclissare i vecchi, quelli che hanno spianato loro la strada quando era impervia e tutta in salita. E se mai questo blog ha un senso, e' anche quello di diffondere buoni libri, buoni scrittori, buone letture.
E con Slater sono assicurati, tutti e tre.
Ci vediamo ad Ottobre, con il prossimo titolo